Visualizzazione post con etichetta Cultura. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Cultura. Mostra tutti i post

lunedì 1 aprile 2013

battiato e le troie


per la prima volta battiato ha detto qualcosa che hanno capito tutti. 

(uno scrittore figo ha scritto che chi usa la parola troia così, pubblicamente, per riferirsi alle donne, si sta automaticamente giocando un sacco di rapporti sessuali interessanti. io penso questo: quando un addetto alla cultura comincia a parlare come un qualunque uomo medio e sessualmente ingenuo è giusto mandarlo in pensione. insieme ai direttori artistici, certo).



ascolta up patriots to arms

e poi ascolta anche bandiera bianca.

le ha scritte franco battiato (davvero!).

bandiera bianca, del 1981 (grande annata),
è la traccia numero 2 di uno degli album più belli della musica italiana (anche secondo me).

DenisepisanU
(versione inchiostro bianco su sfondo blu)

giovedì 18 febbraio 2010

Cultura. La solitudine dei numeri zero


Stamattina, al bar. Una bella sorpresa nella Sassari cimiteriale. Speriamo solo non si tratti dell'ennesimo, solitario, numero zero.
A.S.

venerdì 15 gennaio 2010

Cultura. La buona stella dell’Università


Una delle mie regole auree è quella di non sputare sul piatto dal quale si mangia, nonostante abbia da sempre un ottimo rapporto con la mia saliva. È questo il motivo che mi ha indotto finora a non occuparmi dell’Università, le cui condizioni stimolano, a dire il vero, più di una considerazione critica e quindi, in qualche parte, autocritica. Naturalmente, “parlare male” del proprio ambiente (e datore) di lavoro è più che legittimo, a patto però che non si cada nel qualunquismo e nell’errore di considerare chi ti sta accanto (e sopra) tendenzialmente peggiore di te e soprattutto di pensare di essere tu il risolutore dei problemi o l’angelo vendicatore di tutte le ingiustizie del sistema. Oltretutto, nel caso dell’Università si tratta di un vero “sistema”, le cui regole di accesso, convivenza e mobilità interna rispondono a criteri generali e particolari certamente discutibili e che spesso sono motivo di “fughe” verso l’estero. Un contesto, quest’ultimo, troppo sbrigativamente descritto come paradisiaco e libero da ogni tipo di condizionamento, ma che risponde a proprie logiche che non necessariamente possono configurarsi come “migliori” di quelle dell’Università italiana; vantaggi e svantaggi finiscono anche là per compensarsi, in tutti i campi: reclutamento, retribuzione, produttività, libertà di azione, sia nella ricerca che nell’attività didattica. Ciò che però l’Università in Italia soffre è la morbosa quanto perniciosa attenzione da parte della politica, che in virtù di una sempre più radicale polarizzazione degli schieramenti non perde occasione ad ogni cambio di colore del governo per mettere mano a riforme e controriforme, col risultato di costringere corpo docente, amministrazione e studenti ad un continuo update senza alcun miglioramento visibile. Mali cronici come nepotismo, sprechi e scarsa produttività, da parte dei docenti, e apatia e basso rendimento, da parte degli studenti, sembrano prescindere da una visione statalista o dalla sua temuta antitesi privatistica. Né possono essere salvifici i tentativi di adeguamento ai rigidi parametri europei, se questi passano solo attraverso italianissime operazioni di maquillage burocratico. In altre parole, l’Università dovrebbe cercare per prima di autoriformarsi. Ma nel frattempo il piatto rischia di svuotarsi, e l’azzeramento della salivazione potrebbe non essere una grande consolazione.



Alessandro Soddu

mercoledì 7 ottobre 2009

Cultura. Tutta un'altra storia?

C’è in Sardegna una gran sete di storia patria, spesso frustrata dall’insoddisfazione verso le fonti (“quello che le fonti non dicono”) e verso gli storici, che non direbbero abbastanza e bene. Se qualcosa non funziona (o, meglio, non funziona come vorremmo) nella narrazione delle fonti, se qualcosa non ha funzionato o non funziona nella claudicante ricostruzione scientifica dei fatti storici, sarà bene capire che ogni intervento di “ortopedia storiografica” non può partire dalla presuntuosa convinzione che gli altri abbiano detto o dicano solo stupidaggini, che l’accademia abbia prodotto solo merce avariata e che noi e solo noi possiamo essere la panacea per ogni male. Essere dentro o fuori dal sistema universitario implica innanzitutto l’impegno a migliorare la propria capacità e onestà d’indagine, senza agitare il vessillo vittimistico di una ingiusta esclusione dal consesso scientifico e/o accademico. La patente di attendibilità e autorevolezza si guadagna sul campo, attraverso la dedizione e una puntuale analisi delle fonti. Ricoprire una cattedra non abilita automaticamente alla veridicità scientifica, così come essere fuori dall’Università non è garanzia del contrario. Ricercatori e docenti non sono cioè tutori di alcuna verità né tanto meno dei fatti storici, anche se per statuto e vocazione sono deputati al loro studio e alla divulgazione dei risultati delle proprie ricerche in merito; ma è altrettanto vero che cultori e appassionati estemporanei non possono pretendere di sostituirsi a priori ai professionisti della ricerca storica nel nome del degrado dell’accademia e dell’insoddisfazione per gli orientamenti “ideologici” della ricerca stessa. Iniziative analoghe in altri settori più propriamente definiti scientifici vengono giustamente bollate come atti di ciarlataneria, talora perseguibili anche penalmente. Troppo spesso invece per le discipline storiche viene rivendicata la libertà di pensiero, sancita certamente dalla Costituzione ma declinata più facilmente come “pensieri in libertà”. Affabulazione e potere mediatico (non necessariamente quello dei grandi gruppi: si intendono anche i 4-5000 euro di tasca propria investiti per una pubblicazione) fanno il resto. Sergio Frau non è certo uno sprovveduto, ma senza il gruppo “Espresso” alle spalle la sua Atlantide sarebbe rimasta sott’acqua.

Alessandro Soddu

giovedì 24 settembre 2009

Cultura. Noi Sardi siam così




Esiste un fenomeno inspiegabile per cui, dopo aver letto casualmente su un libro o un giornale una cosa che si ignorava, il giorno stesso o in quelli seguenti ci si imbatte in qualche modo nello stesso argomento. Non un déjà vu, per intenderci, ma piuttosto quel meccanismo che fa sì che incontriamo il nuovo vicino di casa in ogni angolo della città dopo aver passato una vita ignorandone l’esistenza. Insomma, per farla breve, Matteo Motolese sul Domenicale del “Sole24ore” del 20 settembre scorso recensisce un saggio di Furio Brugnolo su come la lingua italiana sia stata fatta propria da autori di altra nazionalità. La ricerca prende piede dai trovatori provenzali ed in particolare da Raimbaut de Vaqueiras, che intorno alla fine del XII secolo verseggia ospite nella corte dei marchesi di Monferrato. Lo studio di Brugnolo evidenzia come una delle prime testimonianze del genovese antico si ritrovi nel cosiddetto Contrasto, dove il poeta fa canticchiare a una donna genovese «giullare, il tuo provenzale, te l’assicuro, per me non vale un soldo; non ti capisco più di un tedesco di un sardo o un berbero» (jujar, to proenzalesco, s’eu aja gauzo de mi, non prezo un genoì; no t’entend plui d’un toesco o sardo o barbarì). Per onor di cronaca, il buon Raimbaut conosceva la Sardegna, anzi i sardi, o, meglio, le sarde (un po’ come accade oggi), visto che in una sua nota poesia canta la bellezza della principessa logudorese Maria la Sarda, moglie di Bonifacio di Saluzzo. Detto questo, il giorno dopo sono incappato in un passo di Boncompagno da Signa, celebre maestro medievale di retorica, relativo al modo di piangere nei vari popoli. Ebbene, uno dei capitoli è dedicato ai Sardi e ai Berberi: i primi per gelosia sferzerebbero l’aria con urla simili a quelle dei cacciatori, gli altri ululerebbero come lupi mentre le loro mogli guairebbero come volpi (Sardi zelotipi more venantium ictu vocis verberant aerem, quando plangunt, et Barbari tanquam lupi ululant et mulieres eorum ganniunt sicut vulpes). Nel 2003 il film di Mereu Ballo a tre passi dipingeva un quadro non molto dissimile, mentre Aldo, Giovanni e Giacomo, quando ancora facevano ridere, con la gag del “nonno” avevano colto bene il lato esotico della faccenda. C’è da esserne contenti o dispiaciuti? La non-risposta sta tutta nello sguardo interrogativo-strabico del muflone: molto sardish!

Alessandro Soddu

martedì 15 settembre 2009

Cultura. Quale inno sardo?




La Nuova Sardegna, 11.09.2009.
Cosa intende il sig. Guido Piga per “inno sardo”? Conservet Deus su Re di Vittorio Angius? Procurade ’e moderare di Francesco Ignazio Mannu? Oppure, come credo e temo, la marcetta Dimonios di Luciano Sechi, inno della Brigata Sassari (Esercito Italiano)? Non esiste un inno ufficiale della Regione Sardegna (Procurade ’e moderare lo è di molti Sardi). Forse sarebbe bene non confondere le acque con gloria (vera) e (finte) suggestioni storiche. È stata sufficiente, qualche anno fa, la costituzione del partito Fortza Paris.

Alessandro Soddu

venerdì 31 luglio 2009

Cultura. Zia Maria e De Andrè

«Chie no cheret bene a sos canes no cheret bene mancu a sos cristianos» (“chi non vuol bene ai cani non vuol bene neanche agli uomini”). Devo questa pillola di saggezza a zia Maria (dove zia e Maria sono fatti reali), che nella sua vita ha conosciuto bene l’animo degli uomini e dei cani. Tutta la nostra vita è condizionata dalla nostra forma e dalla nostra formazione, infantile e giovanile, e dopo un po’ non possiamo farci quasi niente. Difficilmente miglioriamo, al limite manteniamo e conteniamo. Però possiamo conoscere, quasi a dismisura. La mia conoscenza di De Andrè, da bambino, è legata a un contesto squallido di penombra estiva, caldo e fumo. La canzone di Marinella e Bocca di rosa andavano a oltranza sul giradischi di uno zio minore e il timbro tombale di Faber faceva il resto. Ho dovuto attendere gli arrangiamenti della PFM per sentire vive quelle canzoni e conoscerne delle altre. Ma, come detto, l’imprinting è fondamentale e letale. Ancora più recentemente ho scoperto e riscoperto altri brani grazie alle reinterpretazioni di una cover band sarda (i Doc Sound) che ne ha fatto il tratto dominante del proprio repertorio. Il fatto è che tra libri, video e tributi musicali, il fenomeno De Andrè mantiene dimensioni incredibili. Santificato già da vivo, la sua venerazione è in crescita costante al punto da rendere paradossali se non ridicole le infinite iniziative “per non dimenticare”. Nessuno dimentica, nessuno può dimenticare. Semmai alcuni non riescono ad elaborare il lutto e ad andare avanti. Non riescono i fans, non riescono Cristiano De Andrè, anima fragilissima che in questi giorni risorge artisticamente grazie alla compiuta reincarnazione in lui del padre, e la PFM, che certifica e giustifica la propria esistenza nella riproposizione dei vecchi successi del cantautore genovese. Non dimenticano i sardi e la Sardegna, che devono scontare anche la colpa del barbaro rapimento, la cui miseria morale aumenta nel tempo proporzionalmente alla caratura artistica e intellettuale di Fabrizio De Andrè. La cui poesia e musica, che lo si voglia o no, scavano a fondo dentro la coscienza e la memoria lunga di individui e collettività, lasciando un solco lungo il viso, come una specie di sorriso.

Alessandro Soddu