venerdì 15 gennaio 2010

Cultura. La buona stella dell’Università


Una delle mie regole auree è quella di non sputare sul piatto dal quale si mangia, nonostante abbia da sempre un ottimo rapporto con la mia saliva. È questo il motivo che mi ha indotto finora a non occuparmi dell’Università, le cui condizioni stimolano, a dire il vero, più di una considerazione critica e quindi, in qualche parte, autocritica. Naturalmente, “parlare male” del proprio ambiente (e datore) di lavoro è più che legittimo, a patto però che non si cada nel qualunquismo e nell’errore di considerare chi ti sta accanto (e sopra) tendenzialmente peggiore di te e soprattutto di pensare di essere tu il risolutore dei problemi o l’angelo vendicatore di tutte le ingiustizie del sistema. Oltretutto, nel caso dell’Università si tratta di un vero “sistema”, le cui regole di accesso, convivenza e mobilità interna rispondono a criteri generali e particolari certamente discutibili e che spesso sono motivo di “fughe” verso l’estero. Un contesto, quest’ultimo, troppo sbrigativamente descritto come paradisiaco e libero da ogni tipo di condizionamento, ma che risponde a proprie logiche che non necessariamente possono configurarsi come “migliori” di quelle dell’Università italiana; vantaggi e svantaggi finiscono anche là per compensarsi, in tutti i campi: reclutamento, retribuzione, produttività, libertà di azione, sia nella ricerca che nell’attività didattica. Ciò che però l’Università in Italia soffre è la morbosa quanto perniciosa attenzione da parte della politica, che in virtù di una sempre più radicale polarizzazione degli schieramenti non perde occasione ad ogni cambio di colore del governo per mettere mano a riforme e controriforme, col risultato di costringere corpo docente, amministrazione e studenti ad un continuo update senza alcun miglioramento visibile. Mali cronici come nepotismo, sprechi e scarsa produttività, da parte dei docenti, e apatia e basso rendimento, da parte degli studenti, sembrano prescindere da una visione statalista o dalla sua temuta antitesi privatistica. Né possono essere salvifici i tentativi di adeguamento ai rigidi parametri europei, se questi passano solo attraverso italianissime operazioni di maquillage burocratico. In altre parole, l’Università dovrebbe cercare per prima di autoriformarsi. Ma nel frattempo il piatto rischia di svuotarsi, e l’azzeramento della salivazione potrebbe non essere una grande consolazione.



Alessandro Soddu

3 commenti:

  1. Caro Ale,
    nonostante l'ora presta nella quale mi sono imbattuto in questi pensieri proverò a sostanziare il concetto di mosceria che evidentemente ha colpito un tessuto molle... l'inizio era promettente: oltre a non sputare, avrei anche aggiunto che non mi sarei abbassato all'italico costume della lamentatione ad
    usum ottenimento di qualcosa... e in questo rientra anche il pettegolezzo, il parlar male dei colleghi, il nepotismo ecc. ecc.
    Detto questo partirei dal generale per scendere nel particulare: direi che le scelte contenute nel ddl sono coraggiose e pericolose al tempo stesso; direi che la scelta di offrire ai professori ordinari tutto il potere decisionale è giusto; direi che questa riforma potrebbe essere per loro un banco di prova importante per migliorare la nostra Università; direi, in somma, che il futuro è adesso (o meglio sarà fra molto poco...); direi che l'università
    italiana non fa così schifo: anzi la fuga dei cervelli è la testimonianza adamantina che l'alta formazione in Italia è eccellente, è il passo successivo, quello della ricerca, da migliorare...; direi che è molto triste vedere che in Italia quest'anno non ci saranno finanziamenti sulla ricerca (è zompato il prin 2009 se te ne sei accorto) e che essa si deve reggere sugli sms della gente comune (che quindi paga due volte la ricerca in Italia), sul gioco del lotto e altre amene lotterie, sull'8/1000 che è altra forma di doppio pagamento da parte del privato; direi che qualsiasi riforma deve
    partire dai punti forti raggiunti, dalle eccellenze (numerosissime) raggiunte nel nostro paese in tutti i settori; direi che nessuna riforma, per queste ragioni, può essere fatta a costo zero perchè la formazione primaria e
    secondaria, quella universitaria in seguito devono essere uno dei capisaldi della nostra società: perchè in Francia si fa una riforma finanziandola con 12 miliardi di euro, in Germania con 15, negli Stati Uniti con 21 di
    dollaroni? Mi chiederei a questo punto se la classe politica, cosciente di tutto ciò non
    voglia ridurre l'Italia a un misero popolo bue... Ma veniamo al particulare.... Al contrario, direi che la Sardegna sta facendo
    moltissimo e bisogna dare atto che negli ultimi dieci anni tutti i governi regionali, di qualsiasi colore essi siano stati o siano, si sono spesi per colmare il deficit statalecon finanziamenti regionali: se esiste un fondo per
    le università, per le sedi decentrate, per i visiting professors, per il master and back; se esistono le borse dei giovani ricercatori (più di 800), se esistono fondi per i progetti di ricerca (universitari e non), se hanno creato gli spin-off e se si cerca di dare un futuro a molti sardi attraverso la creazione di centri di competenza e di alta formazione questo testimonia una grande attenzione regionale nell'educazione e mi sembra l'esatto contrario di quanto accade in altre parti del nostro paese con l'assistenzialismo. Mi sai dire quale altra regione ha tutto ciò? Diciamo anche che questo sforzo meritorio è assolutamente necessario date le distanze dal continente; diciamo che l'università ha l'obbligo morale e sostanziale di aprire facoltà e corsi in Sardegna sempre per le distanze che ci separano dall'Italia; diciamo che i docenti hanno l'obbligo morale non solo di
    trasmettere il loro sapere alle giovani generazioni ma anche di creare i presupposti perchè essi possano essere avviati ad attività lavorative, magari usando il simbolo della nostra università e le competenze che abbiamo
    all'interno. Un'ultima preghiera che avrei sottolineato con forza: smettiamola con la
    solfa che le università isolane sono università omologate a quelle dell'Italia centro meridionale. Non è vero: le università dell'isola sono università della Sardegna, con le loro specificità, i loro particolarismi, i
    loro problemi. Sono università italiane, mediterranee ed europee che vogliono e devono costruire il futuro: ci piaccia o no.
    Abbraccio
    marco rendeli

    RispondiElimina
  2. L'incipit è a dir poco fantastico, l'invito all'autoanalisi è condivisibile e l'ottimismo di Marco Rendeli è piacevolmente contagioso.
    Very good!
    Dendesia

    RispondiElimina