Quella del “Tempo galantuomo” è una delle verità più indiscutibili della sapienza secolare dell’Uomo, perché consente di fare giustizia nell’attesa (per molti vana) del Giudizio Universale, anche se le parti lese spesso non fanno in tempo a trarre quel pur lieve beneficio che si prova a vedere rimessi a posto i cocci del disastro. Quando il grande tsunami politico, etico e culturale di questo ultimo quindicennio sarà finalmente passato rimarranno sulla spiaggia della coscienza di molti i rottami e il lordume di anni spesi a difendere, se non a esaltare, le gesta e la gloria posticcia di personaggi inqualificabili che hanno sacrificato quanto faticosamente raggiunto dal Dopoguerra in poi e le ingenue speranze post ’89 al mantenimento della propria posizione dominante o al soddisfacimento di una sfrenata sete di potere, nel nome di rispolverate e poco coerenti ideologie e di impudichi egoismi territoriali. Coloro che, anche guardando dall’esterno, sono oggi disposti a perdonare tutto, ad approvare recto collo il disprezzo della forma, del rispetto, della condivisione di programmi e di ideali, della convivenza civile, domani si guarderanno intorno disorientati, incerti se vergognarsi o provare a ripartire indossando la maschera del momento. Ed è certo che ce la faranno, perché questo è il Paese senza Memoria, dove la responsabilità è una partita di giro. Chi, invece, avrà subito suo malgrado la democratica dittatura della maggioranza sorriderà amaro gustandosi uno spettacolo comunque indecente e cercherà di fissare una volta per tutte le regole d’oro di una nuova possibile stagione politica (quella che Marco Pannella chiama «conquista della democrazia»), dove non tutto possa essere comprato o venduto con la forza del denaro e della persuasione. E se qualche nuovo ostacolo non salterà fuori ad impedire o rallentare per l’ennesima volta un reale progresso civile, si potrà forse godere della confortante sensazione di affidare le proprie notti ed i giorni dei propri figli alla buona volontà dei migliori o comunque dei capaci.
Alessandro Soddu
Mi pare che il concetto pannelliano - conquistare la democrazia -, corrisponda a quello formulato da Bartolomeo Sorge già nel 1990 - sbloccare il sistema inceppato dalla partitocrazia -, mentre si profilava la crisi della Dc e dei partiti in genere.
RispondiEliminaQuesto per sottolineare come vent'anni - senz'altro galantuomini - siano trascorsi invano. Allora dobbiamo lasciarci al pessimismo, rinunciare all'ottimistica speranza del rinascimento civile? No. Sono con l'amico Alessandro: creiamo una democrazia dei migliori e dei capaci.
Sorge scriveva su Micromega che la democrazia, in Italia, deve essere fatta maturare. Da sé però non matura. L'acqua, il concime, il sole dobbiamo darglieli noi: non abbandoniamola più alle solite maschere, quelle che governano le cose italiane dal Novecentoquarantotto.
Francesco Obinu
il tempo non è un galantuomo, perchè passa e se ne fotte.
RispondiEliminaQuando si parla del tempo vuol dire che non si hanno più argomenti....
RispondiEliminaMa quando invece avremmo constatato di aver perso tempo allora si che ci renderemo conto delle cose. Lo tsunami politico di questi ultimi anni sappiamo chi è, e come è. Quel che resterà non sarà uno stato più efficiente, fatto da cittadini che finalmente hanno senso dello stato, della giustizia, della politica come strumento per il bene comune. Avremo solo una struttura ancora più debole, dove i cittadini avranno stampato nel loro DNA che la formula del chiagne e fotte sarà diventato il nuovo comandamento. Un governo che sarà sempre più vicino ai forti e distante dai deboli, una struttura sociale dove il dirigente prende 4 o 7 volte più del suo impiegato. Dove le garanzie non esistono e dove i sotterfugi saranno all’ordine del giorno. Ci renderemo finalmente conto di aver perso tempo, di non aver costruito un mondo migliore per i nostri figli ai quali l’unica cosa che potremmo trasmettergli saranno le rate del nostro mutuo. E lì il tempo non è galantuomo, ma segna solo che si avvicina la data di scadenza!
Ai nostri pessimisti e fatalisti amici chiedo: è così difficile mettere un segno di matita su un simbolo diverso quando si va a votare?
RispondiEliminaOstinarsi a dare retta a quelli che promettono (e fottono) da cinquant'anni è un atto masochistico dal quale non riuscite a scappare?
Essere stati pesantemente delusi da un partito copia-incolla è una ragione sufficiente per gettare per sempre la spugna?
O, se siamo Uomini, davvero non possiamo impegnarci di più e diversamente perché le cose comincino ad andare meglio?
Francesco Obinu
Caro Francesco,
RispondiEliminasi racconta che Violante prima di fare il suo primo comizio fu avvicinato da un vecchio dirigente del PC, al secolo Paietta, che gli disse «ora è facile, questi sono tutti dalla tua parte. L’unico tuo obbiettivo è quello di non deluderli. Quello difficile è convincere gli Altri, quelli che non ci sono».
Non è da questa parte che devi convincere a mettere il segno con la matita dall’altra parte, o su un nuovo partito che non sia copia ed incolla. E ancora, io sono convinto, che solo quando sei dentro un sistema lo si può cambiare. Il problema è che non si riesce ad entrare in questo sistema, da tempo, da molto tempo. Sono decisamente stanco di impegnarmi per gente che non fa nulla per me, che da venti anni ha cambiato casacca, modi di vestire, ma gestisce l’ennesimo comitato di affari, e ti fa la predica su come le cose non vanno o sul perché la società di oggi è così… cambiata. Il tutto mentre sistema figli, parenti, nuore, e vivono in attici stratosferici e passano le vacanze al mare a Stintino. Ma almeno so una cosa, che finché vedrò differenze e ingiustizie, vedrò la possibilità di migliorare le cose, vedrò che ci sono persone che non hanno diritti, che si spreca continuamente risorse materiali, umane, intellettuali, e finché vedrò che il manager, il dirigente, il politico alla Camera Dei Deputati, alla Regione, guadagna 10 volte in più del normale, bene, me ne infischio se è populismo o falsa demagogia, saprò che è una vergogna.
Lì saprò sempre da che parte stare. E ditemi dove fare il segno con la matita adesso!
Io un suggerimento su dove mettere la crocetta la prossima volta ve lo darei anche, ma temo che non sarebbe corretto, in questa sede.
RispondiEliminaPerò una cosa vorrei dirla lo stesso.
Perché non provate a guardarvi intorno senza pregiudizi: di cose da fare ce ne sono tante, per migliorare questo nostro mondo. A cominciare dalla porzione del medesimo dove ci capita o abbiamo scelto di vivere. Ebbene, magari proprio lì, vicino a voi, c'è qualcuno che si sta già impegnando per costruire un diverso orizzonte in cui iscrivere le proprie azioni e le proprie idee e per tradurle in qualcosa di positivo per tutti (in questo caso io penso ai sardi).
A me sembra che spesso abbiamo una prospettiva monca, che il nostro sguardo sia strabico, o che soffriamo di qualche disturbo osteo-muscolare che ci impedisce di scrutare tutt'intorno a noi, a 360°. Guardiamo un angolo di cielo, un arco di 90° da Milano a Roma e quello ci sembra il nostro unico riferimento politico e culturale possibile.
Non è così.
Non è da Roma che arriveranno le risposte che aspettiamo. Questo, in Sardegna, deve essere chiaro a tutti. Non è possibile per ragioni prima di tutto strutturali. Non dipende dalla malevolenza di questo o quel governo (di governi amici che ci hanno dato buca ne abbiamo conosciuto diversi, mi pare, no?).
E allora, coraggio. Un senso alla nostra vita associata, soprattutto in proiezione futura, forse possiamo ancora darlo. Certo, non nell'ambito di quell'attività di spartizione di potere e denaro che è la politica italiana (e non da oggi, attenzione). Politica italiana che, nei suoi risvolti "proconsolari" in Sardegna, assume dei connotati ancora più squallidi e deprimenti.
Forse è tempo di lasciarli perdere. In tutti i sensi.
Omar Onnis
Sono d'accordo con te Franco: denunciare le diseguaglianze sociali non è populismo.
RispondiEliminaChiediti, però, chi grida al "populismo" ogniqualvolta una voce indignata, come la tua, innalzi quella denuncia. Fra governo e opposizione esiste un corridoio di comunicazione "moderato" che fa subito fronte comune contro quelli che protestano, che s'indignano per le gravissime sperequazioni sociali ed economiche che sono la causa della sofferenza materiale e morale di milioni di persone. Costoro impongono il bavaglio alla denuncia, nessun lamento deve disturbare la loro beata esistenza. Si chiamano anche Violante, certo; e Fini, e Casini, e Bondi, e Gasparri, e Rutelli, e Veltroni...
Riprendo l'ultima frase di Omar Onnis per dire e ribadire che sono loro, i benpensanti "moderati", gli stucchevoli centristi di sempre che dobbiamo finalmente lasciar perdere, mettere da parte per sempre, se vogliamo finalmente camminare in avanti.
Anche perché, caro Omar, a Roma come a Cagliari, sono loro che dettavano e dettano legge.
Non credo che il problema sia risolvibile in una prospettiva sardocentrica. Noi però, da qui, possiamo dare il nostro contributo.
Francesco Obinu
Perché non sarebbe risolvibile in una prospettiva sardocentrica?
RispondiEliminaA me pare, anche riflettendo in termini storici, che invece stia emergendo con sempre maggiore prepotenza che è quella l'unica prospettiva praticabile.
Almeno, per chi concepisca la politica (e per politica intendo, in senso lato, ogni tipo di impegno pubblico) come il momento di composizione dei vari interessi e dei diversi bisogni in un'ottica generale di crescita sociale, economica e culturale.
Metterci in una prospettiva sardocentrica ci farebbe di colpo scoprire che noi non siamo una periferia marginale di qualcos'altro, un 2% di un 100% lontano e in gran parte estraneo (se non altro, nei suoi interessi vitali). Siamo invece al centro del Mediterraneo occidentale, alla stessa distanza geografica da Barcellona, Marsiglia e Genova (senza considerare la sponda sud, che pure qualcosa da dire - vedi progetto GALSI - ce l'avrebbe).
E non siamo una periferia marginale e insignificante di qualcos'altro nemmeno in termini storici (come pure siamo abituati a pensare, anche tra addetti ai lavori): per il semplice motivo che abbiamo una storia nostra da raccontare e da raccontarci, né più importante né del tutto trascurabile rispetto ad altre.
Insomma, lungi da noi qualsiasi pulsione isolazionista ed etnocentrica. Ma bisognerà pur sempre che prima o poi al centro del nostro orizzonte mettiamo noi stessi. Nessun altro lo farà al posto nostro.
Chi ha valori ed energie da spendere, potrà farlo di certo più agevolmente in un contesto non contaminato da provincialismi e clientele vincolate a centri di interesse e di potere esterni: mi pare persino banale dirlo.
Interessi e centri di potere che oggi hanno a Cagliari una loro propaggine, i loro esecutori materiali. I quali in cambio ricevono legittimazione e accesso ai ruoli di governo.
Se erodessimo fino alla consunzione questo legame patologico con l'Italia, non è vero che ci condanneremmo all'esilio dal mondo: ci apriremmo finalmente a una rete di relazioni con tutta l'umanità. Da soggetto attivo della nostra storia.
Non vi sembra una prospettiva per cui valga la pena di impegnarci?
Condivido pienamente ciò che scrive F. Campus
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RispondiEliminaCaro Omar,
RispondiEliminada sardo, nato qui e residente qui, ma non al 100% per origini materne, l’ipotesi della prospettiva Sardocentrica mi ricorda, per assonanza geometrica e per una certo velo di politichese, le convergenze parallele degli anni Settanta. Che l’Isola nella sua entità geografica sia al centro, o meglio nella porzione occidentale, del Mediterraneo è un fatto. Mi occupo di storia e di archeologia e tralasciando il lungo periodo preistorico, tanto caro (e abusato) dai Sardo(centrici), è sempre un fatto che l’isola abbia una sua storia. Ma come si dice di solito: tra il dire e il fare, e mai come in questo caso, c’è di mezzo non solo il mare, ma anche quella affannosa ricerca di una Storia di certezze e di segni di una dignità (come più volte ne ha scritto Alessandro Soddu) che a volte è caduta nel folclore. È qui il tempo non è stato galantuomo, dato che siamo ancora legati a luoghi comuni storiografici frutto di “logiche interpretative” sul limite dell’ovvietà e sulla troppo scontata banalità. Alcuni esempi: il rifiuto secolare dei Sardi verso il mare (falso), la costante resistenza dei sardi verso le popolazioni esterne (falso, in realtà, le realtà materiali mostrano tendenze decisamente opposte).
Sono d’accordo nel calibrare al meglio al nostro orizzonte, ma è solo nella apertura e nella consapevolezza della nostra cultura (studiare di più e meglio) che sapremo non sparire e non trasformarci in ridicoli souvenir da bancarella come le bamboline in costume sardo oramai spacciate da commercianti pachistani durante la cavalcata. In questo ovviamente non mancano le differenze e le ingiustizie che ci accomunano al resto del paese (Italia): problemi sociali, ipocrisie, privilegi di posizione e di rendita (che nella nostra isola raggiungono il parossismo pensionistico, ma che sono spazi di potere e bacini di voti necessari). Il mondo perfetto non esiste, oramai penso che sia così, ma la volontà di lavorare (anche senza lottare, un verbo che ha fatto danni enormi ogni volta che è stato usato e abusato) per uno migliore sì.
La famosa frase di J.F. Kennedy ««Non chiedetevi cosa può fare il vostro paese per voi, ma che cosa potete fare voi per il vostro paese» in Sardegna potrebbe essere leggermente mutata in questo modo: smettiamola di chiedere un futuro alla Storia passata del nostro paese, ma pensiamo che storia vogliamo costruire per il futuro del nostro paese.
Franco G.R. Campus
Sono completamente d'accordo a metà.
RispondiEliminaSono completamente d'accordo per intero.
RispondiEliminaFranco, lasciamo perdere le convergenze parallele e il politichese: mi sono del tutto estranei entrambi. Negli anni Settanta andavo alla scuola materna e alle elementari, perciò...
RispondiEliminaA parte il commento tranchant ma incongruo, quello che dici mi trova pienamente d'accordo. Non vedo dove possa essere in contrasto con quanto dicevo più sopra.
È solo la paura di risvegliarsi un giorno finalmente maggiorenni, che fa eludere la questione? A me sembra che questa paura ci sia. Piace un mondo, a noi sardi, la condizione dello studente universitario fuori sede: sei lontano dalla fonte del tuo sostentamento e solo per questo credi di potre fare quello che vuoi. Ma tutto quello che puoi fare è garantito da qualcun altro, un'autorità da cui puoi aspettare sostegno e, a certe condizioni, pretendere aiuto. Ma questa condizione di "autonomia" non ha nulla a che fare con la libertà. La libertà coincide con l'indipendenza, l'indipendenza possibile e reale, secondo le dinamiche del nostro mondo iper-complesso e fitto di relazioni.
E l'indipendenza, in qualsiasi modo la si voglia declinare, per una terra come la Sardegna non può affatto coincidere con l'essere parte politica, "regione" periferica e insignificante, di un ordinamanto giuridico altro da sé. Il che ha vari risvolti e connotazioni, chiaramente.
Ma in questo caso, la storia, almeno quella contemporanea, qualcosa dovrebbe pur insegnarcela.
La questione è l'orizzonte di senso in cui iscriviamo la nostra prospettiva storica. Io credo che la Sardegna e chi ci vive saranno sempre subalterni, vincolati a logiche clientelari e piegati dal perenne ricatto occupazionale all'accettazione di qualsiasi porcheria (ieri servitù militari e industriali, domani servitù nucleari) fintanto che non esprimeranno una propria soggettività pienamente dispiegata.
L'emancipazione sociale, culturale e civile non può essere scissa da quella politica. Mi pare una conclusione difficile da confutare.
Se non la si pensa così, bisognerebbe portare delle argomentazioni credibili e sottoporle al vaglio critico degli interlocutori, non liquidare con malcelato sarcasmo una prospettiva diversa, solo perché non la si condivide (o non ci si è mai riflettuto su).
Questo, ovviamente, vale per tutti.
Io, con tutto il rispetto per le idee altrui, ho detto la mia.
Caro Omar,
RispondiEliminacome vedi già il fatto che ci sia una comunicazione è un fatto positivo. E so benissimo che il mio sarcasmo tranciante non può piacere a tutti. Anche se questo, se hai letto i precedenti commenti, deriva solo dal fatto che considero alcune parole un po’ artefatte, come ad esempio quelle che devono definire una visione strategica a base geo-politica. Comunque credo che vi sia un abuso di parole come indipendenza e libertà. Sono immediate e facili da usare, ma difficili da attuare, e come hai scritto tu “secondo le dinamiche del nostro mondo iper-complesso e fitto di relazioni”.
Sono le relazioni e il confronto i piani difficili da mantenere e da costruire. In altre parole fermarsi solo alla pars destruens è facile, come è facile usare parole affascinanti. Ma ritengo un piccolo errore pensare ancora con logiche che derivano dal Quattrocento dove in ballo oggi, come allora, non vi era l’autonomia di un Regno rispetto ad uno più forte e cattivo (sto usando parole semplici e banali giusto per capirci). Non penso che la strada sia quella della “l'emancipazione sociale, culturale e civile che non può essere scissa da quella politica”. Lo status di Regione Autonoma, raggiunto dopo il secondo conflitto mondiale, del resto, rispondeva in parte a quelle domande di cui sopra. Se poi i Piani di Rinascita sono in parte falliti, se sono arrivate le industrie inquinanti a Ottana o a Porto Torres non sono solo il frutto della subalternità (secondo una lettura facile e un po’ banale), ma allora erano possibili soluzioni a problemi sociali. Soluzioni che oggi, studiando, ci appaiono sbagliate, certo, ma che negli anni Sessanta, qui nell’Isola, dopo il ventennio fascista (che nell’Isola aveva molti fans, non dimentichiamolo anche tra gli esponenti Sardisti), il problema era quello di dare lavoro a una generazione sovrabbondante, figlia delle assurde politiche demografiche del Ventennio. Negli anni Sessanta l’alternativa era o rassegnarsi ad emigrare, o tentare qualcosa (e quella è la storia che dobbiamo anche scrivere, e di cui io mi astengo non per limiti di età, ma per mancanza di adeguate conoscenze).
Quindi, oggi, non credo che bisogna buttare via tutto, forse basterebbe essere meglio informati, preparati e quindi in grado di reggere al meglio il confronto senza chiudersi ancora di più. Credo, ma è un mio modo di pensare, che non saremo più dignitosi o più rispettati se invece che Regione Autonoma della Sardegna, ci chiamassimo Sardegna Autonoma, Regno di Sardegna, Repubblica di Sardegna, o anche Circolo Privato delle Berritas.
Le logiche clientelari e subalterne “piegati dal perenne ricatto occupazionale all'accettazione di qualsiasi porcheria (ieri servitù militari e industriali, domani servitù nucleari)” sono certamente un fatto che non si può far finta che non esistano. Chi lo va a dire ai pensionati della Sardegna, molti ex coltivatori diretti, che il loro assegno, con il quale fanno muovere e sopravvivere una fetta non trascurabile dell’asfittica economia interna, non c’è più perché fu il frutto di logiche clientelari che vengono dall’esterno. Chi lo fa a dire a quelli che lavoro nelle maglie burocratiche dello Stato (come ad esempio nelle scuole) che il loro posto di lavoro salta dato che viene mantenuto solo dalle logiche di cui sopra (vedi la Gelmini e quello che ha fatto nel piano delle scuole). Siamo liberi di criticare il supermercato generalista, ma hai bisogno dei soldi per comprare i beni che ci sono dentro. Il problema non è quello di piegarsi o di avere la schiena dritta, ma quello di lavorare al meglio con i diritti esistenti eliminando o alla peggio mitigando le logiche di cui sopra. Ma è un fatto che una fetta non trascurabile di classe politica ci ha marciato sopra per definire i suoi spazi di potere clientelare, e un’altra ne ha fatto uno spirito vuoto e inconcludente.
Franco G.R. Campus
Il miglior post di Franco Campus dal primo compito in classe di italiano ad oggi. Sarà la maturità di 42enne? Scherzi a parte. pienamente condivisibile, perché asciutto e pane-al-pane-vino-al-vino. Poi, se rimane tempo, avanti con dessert e candeline. Bravo.
RispondiEliminaFranco, a me piace molto l'ironia. Ne faccio largo uso, di solito a proposito.
RispondiEliminaIl sarcasmo usato per eludere un problema o spostare il focus della discussione, invece, lo lascerei ai politicanti (veri esperti in materia).
Pars destruens, dici tu. Sarà... L'idea che affrontare il tema dell'indipendenza politica della Sardegna come strada maestra per risolvere i nostri problemi strutturali (dentro i quali metto anche quelli culturali) sia una rinuncia al realismo, o addirittura un auspicio di chiusura culturale, è un argomento assai datato e un tantino di retroguardia. Siamo un po' più avanti di così, nel dibattito politico in Sardegna. Almeno, laddove ci sia un vero dibattito politico.
Affidarsi ai media mainstream per farsi un'idea della situazione non è certo un'opzione degna di persone preparate e con un livello di consapevolezza civica e politica superiore alla media dei teledipendenti.
La tua ricostruzione dei sessant'anni di autonomia regionale non è esaustiva. E comunque, già così, mostra chiaramente quanti e quali limiti insuperabili comporti la condizione di subalternità istituzionale e di marginalità geografica e demografica di cui soffriamo. La malevolenza dello stato padrone (o "padre padrone"), la mancanza di attenzione dell'Italia matrigna verso la piccola e povera Sardegna, sono corbellerie che lascerei ai nostalgici di Lussu e della sua "nazione fallita".
Il problema non è chi ci pagherà le pensioni (se hai versato i contributi all'INPS la pensione te la pagherà l'INPS, quale che sia la tua cittadinanza) e nemmeno chi ci darà di che campare. Queste, perdonami, sono obiezioni che accetterei malvolentieri in una chiacchierata da tzilleri: qui onestamente mi aspetterei di meglio.
Proprio in virtù della massima kennediana più sopra riportata, esorterei a vedere la situazione attuale come una grossa potenzialità per fare qualcosa per noi stessi e il nostro paese. Dovremmo chiarire quale sia questo paese cui facciamo riferimento, certo. E qui entrerebbero in gioco i nostri processi di identificazione, le loro radici storiche e culturali e tutta l'ambiguità che l'essere sardi in Italia comporta (e non certo da oggi).
In ogni caso, di persone che non si limitano alla pars destruens ma agiscono concretamente, a vari livelli, per rendere la Sardegna un posto migliore e condurla verso la sua emancipazione storica ce ne sono già tante.
La scelta è se fare come loro, ognuno col proprio bagaglio di competenze e valori, o scegliere di perpetuare una condizione politica, sociale, culturale ed economica chiaramente insostenibile.
Non entrano in gioco qui gli appelli identitari o le chiusure culturali che alcuni (sempre di meno) addossano a qualsiasi discorso politico indipendentista. Quella è roba vecchia, già condannata dalla storia e ormai superata. I nostalgici della purezza della razza, i teorici della weltanschauung ento-centrica (o eno-centrica, a seconda delle circostanze), sono ormai una minoranza non rappresentativa, qualsiasi cosa i media continuino a rappresentare (vedi titoli cubitali su ogni scemata del povero Doddore Meloni, tanto per dire).
Trovo che non si possa compiutamente e pragmaticamente parlare di "Rinascimento" in Sardegna, in qualsiasi accezione si voglia impiegare tale parola, prescindendo da un discorso di crescita generale del livello di consapevolezza. E questo non può essere dispiegato se non in un orizzonte di senso al centro del quale ci siamo noi, e non qualcun altro da cui essere riconosciuti e tutelati (tipo il pangolino).
Ritengo che non si possa più a lungo eludere la costruzione di un percorso politico democratico, condiviso e aperto al mondo, diretto verso la creazione di un nostro ordinamento giuridico indipendente.
Si tratta di una "necessità storica" (in senso gramsciano, non in quello di un destino ineluttabile). Tutto sta, adesso, ad esserne all'altezza.
In passato (1919-23, 1943-48) non lo siamo stati. Ma nulla ci vieta di riprovarci.
E' l'unica forma di riscatto non posticcia o raffazzonata in cui possiamo confidare.
Omar Onnis
30 e lode a tutti in storia e non se ne parla più.
RispondiEliminaBasta...che palleeeeeeeeeeeeeee, logorroici!
invece io trovo tutto molto interessante....oltre a quotare in toto ciò che Omar ha scritto.
RispondiEliminaMarco
Mi ripeto, logorroiciiiiiiii!!!!!!!!!!!!!!!!!
RispondiEliminaMarta Maccioccu
Marta, sii logorroica anche tu! Vogliamo sapere come la pensi
RispondiEliminaEbbene sì.
RispondiEliminaLogorroico, noioso ma anche un po' permaloso (come tutti i Sardi). Si confesso di esserlo. Ma il tema quando è interessante suscita dialogo, scontro e crescita. Ma non sempre può piacere a tutti. Però bisogna deciderci se parlare dell’aria fritta o di temi ricchi e complessi. Ammetto di aver utilizzato delle semplificazioni a volte non all’altezza, ma lo sport del tiro al piccione, che un blog scritto come questo, come in tutti blog, è una caratteristica naturale di queste forme di discussione. Il tema dell’interpretazione della Storia della Sardegna è uno dei miei temi. I danni di semplificazioni e di concetti sul limite dell’ovvietà si pagano ancora oggi. E ancora oggi si stampano libri ancora sulla scia di queste teorie. Io penso solo questo che la dignità della Sardegna non viene dall’esaltazione di Mariano IV, o dalla adorazione della Dea Madre. Viene solo dalla corretta e obbiettiva raccolta dei dati, e da sintesi lucide e a volte anche meno attaccate alle storiografie precedenti. Per il resto sono pronto ad ascoltare, anche a cambiare idea, o a farmene una nuova. Ma chiedo scusa tutti se ci si è annoiati, non lo si è fatto apposta.
Franco G.R.
se questa è la noia, W la noia!
RispondiEliminaIntanto mi scuso per la logorrea (cribbio, mi sembrava che fossimo fin troppo sintetici, a costo di qualche semplificazione, come dice Franco).
RispondiEliminaSulla questione della lettura ideologica della storia (in qualsiasi senso venga svolta) sono pienamente d'accordo.
Un conto è avere delle chiavi interpretative proprie (meglio se dichiarate), un conto è scrivere la storia "a tesi". Orrore e abominio!
Ma di questo, ho già avuto modo di discutere anche da queste parti con Alessandro (Soddu) e a quello scambio di vedute rimando (ma tanto ne dovremo riparlare...).
Per farla breve ed evitare di annoiare ancora qualcuno, propongo a chi fosse interessato e ne avesse il tempo la lettura di un articolo uscito su European Planning Studies lo scorso mese di settembre (vi posterei il link, se fosse possibile, ma non lo è): "Localization in Sardinia and its Ostacles". Spero possiate dargli uno sguardo: trattasi di disamina su alcune cause di sottosviluppo della Sardegna e sulle ragioni del suo perdurare. È la risposta a un articolo uscito sulla stessa rivista on-line nel 2003 a firma di Gert-Jan Hospers.
Più in generale, a proposito del dibattito politico in corso in Sardegna e anche del ruolo degli intellettuali, invito tutti a frequentare il sito www.coronadelogu.com. Anche lì c'è di che... annoiarsi.
In bonora!
Omar Onnis