giovedì 12 marzo 2009

Libri. Il male dentro, il male fuori

L’anoressia come malattia psicosomatica, legata alle condizioni sociali e culturali che mutano nel tempo, è il tema del libro di Walter Vandereycken e Ron van Deth, Dalle sante ascetiche alle ragazze anoressiche (Raffaello Cortina Editore, Milano 1995).
Gli autori partono da due osservazioni fondamentali: intanto che – a dispetto del termine “anoressia”, che indica “mancanza” di appettito –, le anoressiche non mancano di appetito, ma lo sopprimono, per cui la loro malattia è precisamente una “inedia autoindotta”; poi che l’anoressia ha una connotazione di “sindrome culturale”, giacché si è osservato che essa è legata specialmente ad ambienti e società con elevato tenore di vita, tanto da essere quasi esclusivamente una malattia della donna occidentale.
Sopprimere l’appetito non ha lo stesso significato di rinunciare al cibo. La “rinuncia” al cibo ha motivazioni non patologiche ed è una scelta temporanea dell’individuo, perché subordinata al raggiungimento di un obiettivo: nelle società primitive e in età medievale si praticava il digiuno per fini di ordine religioso (purificazione, preparazione rituale, penitenza); i cosiddetti “artisti della fame” (molto in voga nell’ultimo ventennio dell’800) digiunavano per dare spettacolo, mostravano la loro capacità di resistere alla fame per guadagnarsi da vivere; lo sciopero della fame è finalizzato al conseguimento di un obiettivo politico o sociale.
L’“inedia autoindotta”, invece, ha origine da una disfunzione del sistema nervoso, per cui la paziente insegue ad oltranza un “obiettivo” – il dimagrimento – che pensa di non riuscire mai a raggiungere.
Nel 1689 il medico inglese Richard Morton fu il primo ad intuire un collegamento tra il digiuno ostinato e una causa nervosa, ma allora la medicina era troppo lontana dalla comprensione anche parziale dei mali psichici, ed era perciò portata a prendere in considerazione il soprannaturale per spiegarli: il miracolo, l’intervento divino, l’influenza demoniaca o di una strega.
E qui il discorso d’ordine medico si fonde e si confonde con quello d’ordine sociologico, i confini delle due realtà d’indagine si sovrappongono e conferiscono all’anoressia un volto ancora più subdolo e terribile.
La difficoltà di riconoscere e spiegare le malattie di origine nervosa era complicata, infatti, dalla fortissima influenza dell’autorità religiosa sulla società d’età medievale e moderna. Fin dal XII secolo molte donne praticavano il digiuno per raggiungere lo stato mistico: erano le cosiddette “sante digiunatrici”. La Chiesa le approvava, purché interrompessero regolarmente il digiuno, come faceva, ad esempio, Caterina da Siena; altrimenti erano considerate possedute dal demonio con la complicità terrena delle streghe, oppure streghe esse stesse, e dovevano subire un processo davanti ad un tribunale della Santa Inquisizione.
Invece (per noi è facile ipotizzarlo) erano soltanto donne malate e bisognose di cure, che nessuno, complice il clima socio-culturale di quei tempi, riconosceva come tali. Lo attestano anche i casi di digiunatrici che si abbandonavano improvvisamente ad eccessi alimentari, un altro comportamento allora imputato all’influenza del diavolo, ma che oggi riconosciamo come “bulimia nervosa”, l’altra faccia dell’anoressia.
La condizione d’inferiorità e sottovalutazione in cui era tenuta la donna, poi, rendeva ancora più difficile l’esistenza delle sfortunate malate. La Chiesa sosteneva che le streghe fossero capaci di volare, perché di costituzione leggera; come fare, dunque, a dimostrare che una donna accusata di essere una strega, lo fosse effettivamente? Semplice: veniva pesata e se il suo peso risultava inferiore al normale rispetto all’altezza, la poveretta finiva davanti all’Inquisizione.
Ma questo non era ancora il peggio. Siccome molte volte le accusate risultavano di peso normale, gli inquisitori – che volevano ad ogni costo una colpevole, in nome dell’infallibilità della Chiesa - non esitavano a truccare le bilance…
Il riconoscimento ufficiale della malattia arrivò nel 1873, quando Charles Laségue pubblicò l’articolo De l’anorexie hystérique: la giovane età delle donne (15-20 anni), il deperimento per insufficiente alimentazione, l’assenza delle mestruazioni, l’iperattività, l’inconsapevolezza della malattia e il conseguente rifiuto delle cure disegnavano finalmente la carta d’identità dell’anoressia.
Poi gli studi psico-sociologici hanno affiancato quelli medici, legando l’abnorme diffusione dell’anoressia, a cavallo tra ‘800 e ‘900, alle particolari condizioni esistenziali della donna nella famiglia e nella società borghese d’età vittoriana.
La donna era “predestinata” per natura alla maternità e alla vita domestica. Questo ruolo “naturale” implicava sia la repressione della sessualità femminile, sia la “professionalizzazione” dell’impegno materno. Quindi la donna doveva sposarsi nel più breve tempo possibile dopo la comparsa del menarca, perché la sua sessualità poteva esprimersi soltanto in chiave matrimoniale-riproduttiva; e la sua unica professione doveva essere quella di madre-moglie, dunque non poteva svolgere un lavoro fuori di casa, né un’attività sportiva.
Intanto però il nascente movimento femminista, mirando tra l’altro alla “liberazione sessuale” della donna, aggrediva la “doppia morale” della società vittoriana: il sacrificio del piacere sessuale ai dogmi della decenza, dell’autocontrollo, del matrimonio senza passione carnale, valeva teoricamente per la donna e per l’uomo… ma in realtà all’uomo si concedeva il “segreto” sfogo delle case di appuntamento.
La donna, fattasi più consapevole di sé, reagì con il perseguimento di un nuovo canone estetico, che rifiutava le forme prosperose, cioè i simboli di fertilità e maternità. Contemporaneamente, la sua crescente autostima e la volontà di autodeterminazione urtavano drammaticamente contro la perdurante condizione familiare e sociale di costrizione e subordinazione: la sofferenza psico-fisica provocò l’aumento dei casi delle malattie di origine nervosa, compresa l’anoressia.
Ineguaglianza, ignoranza, superstizione sono piaghe dolorose e difficili da guarire, pronte a riemergere in modo insospettabile.
Lo testimoniano casi di estrema drammaticità, accaduti in tempi a noi vicini. Come quello di Anneliese Michel, l’adolescente bavarese morta di fame nel 1976: i suoi genitori decisero di non seguire le prescrizioni mediche e di rivolgersi a due esorcisti, le cui pratiche (ovviamente) non ebbero effetto. La morte assurda di Anneliese dimostra che, nella civilissima ed evoluta Europa del secondo ‘900, la credulità popolare poteva persistere ancora in forme talmente estreme da collegare all’opera demoniaca una malattia ormai ben nota come l’anoressia.

Francesco Obinu

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