lunedì 10 ottobre 2011

Società. La Crisi


In questo momento di grave sofferenza delle economie occidentali, si risente parlare della necessità di costruire l'Europa politica a fronte della esistente Comunità monetaria e mercatista, che sembra quasi favorire la regola del “si salvi chi può” quando le cose vanno male.
Il Parlamento europeo, infatti, non è l'assemblea dei rappresentanti del “popolo” europeo, ma piuttosto dei “popoli” europei (e dei loro governi). Un governo federale, probabilmente, saprebbe fronteggiare una crisi come quella che imperversa attualmente con più prontezza ed efficacia, attraverso misure applicabili a tutti, senza distinzioni, nel nome di un solidarismo che non può mancare nell'ambito di una comunità che voglia dirsi davvero civile e democratica.
Tuttavia, secondo me, avere un governo europeo non basterebbe a tutelarci dalle ricorrenti depressioni economiche. Risolta (in un modo o nell'altro) una crisi, prima o poi se ne aprirebbe un'altra. È il gravissimo limite del modello socio-economico capitalista mercatista.
L'Europa politica, quindi, non dovrebbe limitarsi a ricalcare le strategie economiche oggi vigenti. Il suo governo e le sue istituzioni rappresentative dovrebbero costruire un nuovo modello di sviluppo, che rovesci l'attuale architettura: ovvero, che abbia alla base non più la finanza, ma la società, cioè a dire la tutela dei posti di lavoro, la piena occupazione (fino al limite di quella percentuale minima di senza-lavoro che viene definita “fisiologica”), l'istruzione e la cultura, l'assistenza sanitaria.
Nell'attuazione del nuovo modello economico-sociale, la politica europea dovrebbe perseguire senza indugi e mezze misure gli obiettivi irrinunciabili dell'equità impositiva e della totale eliminazione dell'evasione fiscale e contributiva. Finora si è fatto e si continua a fare soprattutto la lotta alla “piccola” evasione (fattura, scontrino...), che certamente si deve fare; ma l'obiettivo vero dovrà essere quello di colpire la “grande” evasione (esportazione dei capitali, bilanci societari falsi...), che, tanto per capirci, sembra che costino solo al nostro Paese qualcosa come 100 miliardi di euro all'anno (una cifra colossale, equivalente al doppio della maxi-manovra appena varata da Tremonti).
Occupazione diffusa e stabile, entrate erariali costanti e piene: solo così si potrebbe realizzare il tanto invocato “sviluppo”, la tanto desiderata “crescita”, senza che essi siano sostenuti al solito modo, vale a dire con i tagli della spesa pubblica alle fonti primarie della civiltà e del progresso (scuola, università, ricerca), con le decurtazioni allo stato sociale (pensioni, sussidi, sanità), con il precariato occupazionale e, dalla parte dei privati, con i licenziamenti.
Pensare ad altri espedienti non servirebbe. L'ipotesi, ad esempio, di introdurre nella Costituzione (dei singoli Stati o della Comunità) l'“obbligo del pareggio di bilancio”, non mi pare una soluzione di politica progressista ma, semmai, la risposta degli ambienti politici conservatori all'esigenza di quegli attori istituzionali (banche, grandi gruppi finanziari, affaristici e imprenditoriali), che sono interessati al mantenimento dell'attuale architettura economico-sociale. Interessati, dunque, a che gli Stati abbiano bilanci sempre in ordine e denaro pronto alla bisogna, cioè al loro salvataggio o rilancio, anche a costo di privare i cittadini del diritto fondamentale a vivere secondo parametri confacenti alla dignità umana (questa non è una facile “tirata” demagogica: il dramma argentino, o quello più recente vissuto da milioni di Statunitensi, o quello odierno dei nostri vicini Greci stanno lì a dare la misura concreta e tangibile di cosa significhi precipitare nel baratro aperto da soluzioni freddamente tecniche, volte principalmente alla salvaguardia del potere finanziario).
Qualcuno potrebbe obiettare che i suddetti attori non vogliono certo i licenziamenti o l'evasione fiscale; non vogliono certo la sofferenza sociale. Lo penso anch'io; è un fatto, però, che i “piani di ristrutturazione industriale” poggiano sempre principalmente sulla riduzione dei posti di lavoro (cioè delle buste paga), le banche continuano a lucrare sui capitali esportati illegalmente e così via. Questi attori, poi, sono gli stessi che lavorano con la finanza “virtuale”, quella che produce ricchezza “finta”, aleatoria, perché non è frutto del sistema produttivo, ma deriva direttamente dalle operazioni di compravendita di titoli ed azioni e dalle speculazioni di borsa. Da essa, tante volte, sono derivate le tristemente famose “bolle” (valutarie, immobiliari eccetera), che al loro inevitabile svanire hanno causato il fallimento di aziende e istituti di credito, la perdita di posti di lavoro, la disperazione di milioni di persone.
È necessario cambiare. Le dichiarazioni di principio (e di convenienza) da sole non bastano. Ci sono già alcuni segnali incoraggianti. Negli Stati Uniti, ad esempio, molti cittadini sembrano avere preso coscienza del fatto che le loro esigenze vitali non rientrano nella considerazione dei signori di Wall Street. E lo stanno facendo sentire con forza, da New York alla California. Spero che questa consapevolezza cresca anche nel Vecchio Continente.
Se davvero vogliamo l'Europa politica, allora essa non potrà continuare ad essere l'Europa del potere monetario.

Francesco Obinu

2 commenti:

  1. Parole sante.
    Quanto alle misure "anti-crisi", l'esempio argentino mi sembra calzante, così come insegna già la prima tranche di criminale (s)vendita immobiliare di cui ha dato notizia "Ballarò" la settimana scorsa (nella sostanziale indifferenza di conduttore e onorevoli ospiti, a dire il vero), mentre per gli "indignati" di Wall Street Giorno e Notte suggerirei un intervento a cura della nuova coppia Scajola-Pisanu: tanta esperienza a servizio del cambiamento.

    A.S.

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  2. nooooooooooooo hai perso troppo lungo questo post! mi ci vogliono 2 pc per leggerlo, nooo senza neanche una foto!neanche per idea! qualcuno di voi può riassumere? grazie!

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