In
questo momento di grave sofferenza delle economie occidentali, si
risente parlare della necessità di costruire l'Europa politica a
fronte della esistente Comunità monetaria e mercatista, che sembra
quasi favorire la regola del “si salvi chi può” quando le cose
vanno male.
Il
Parlamento europeo, infatti, non è l'assemblea dei rappresentanti
del “popolo” europeo, ma piuttosto dei “popoli” europei (e
dei loro governi). Un governo federale, probabilmente, saprebbe
fronteggiare una crisi come quella che imperversa attualmente con più
prontezza ed efficacia, attraverso misure applicabili a tutti, senza
distinzioni, nel nome di un solidarismo che non può mancare
nell'ambito di una comunità che voglia dirsi davvero civile e
democratica.
Tuttavia,
secondo me, avere un governo europeo non basterebbe a tutelarci dalle
ricorrenti depressioni economiche. Risolta (in un modo o nell'altro)
una crisi, prima o poi se ne aprirebbe un'altra. È il gravissimo
limite del modello socio-economico capitalista mercatista.
L'Europa
politica, quindi, non dovrebbe limitarsi a ricalcare le strategie
economiche oggi vigenti. Il suo governo e le sue istituzioni
rappresentative dovrebbero costruire un nuovo modello di sviluppo,
che rovesci l'attuale architettura: ovvero, che abbia alla base non
più la finanza, ma la società, cioè a dire la tutela dei posti di
lavoro, la piena occupazione (fino al limite di quella percentuale
minima di senza-lavoro che viene definita “fisiologica”),
l'istruzione e la cultura, l'assistenza sanitaria.
Nell'attuazione
del nuovo modello economico-sociale, la politica europea dovrebbe
perseguire senza indugi e mezze misure gli obiettivi irrinunciabili
dell'equità impositiva e della totale eliminazione dell'evasione
fiscale e contributiva. Finora si è fatto e si continua a fare
soprattutto la lotta alla “piccola” evasione (fattura,
scontrino...), che certamente si deve fare; ma l'obiettivo vero dovrà
essere quello di colpire la “grande” evasione (esportazione dei
capitali, bilanci societari falsi...), che, tanto per capirci, sembra
che costino solo al nostro Paese qualcosa come 100 miliardi di euro
all'anno (una cifra colossale, equivalente al doppio della
maxi-manovra appena varata da Tremonti).
Occupazione
diffusa e stabile, entrate erariali costanti e piene: solo così si
potrebbe realizzare il tanto invocato “sviluppo”, la tanto
desiderata “crescita”, senza che essi siano sostenuti al solito
modo, vale a dire con i tagli della spesa pubblica alle fonti
primarie della civiltà e del progresso (scuola, università,
ricerca), con le decurtazioni allo stato sociale (pensioni, sussidi,
sanità), con il precariato occupazionale e, dalla parte dei privati,
con i licenziamenti.
Pensare
ad altri espedienti non servirebbe. L'ipotesi, ad esempio, di
introdurre nella Costituzione (dei singoli Stati o della Comunità)
l'“obbligo del pareggio di bilancio”, non mi pare una soluzione
di politica progressista ma, semmai, la risposta degli ambienti
politici conservatori all'esigenza di quegli attori istituzionali
(banche, grandi gruppi finanziari, affaristici e imprenditoriali),
che sono interessati al mantenimento dell'attuale architettura
economico-sociale. Interessati, dunque, a che gli Stati abbiano
bilanci sempre in ordine e denaro pronto alla bisogna, cioè al loro
salvataggio o rilancio, anche a costo di privare i cittadini del
diritto fondamentale a vivere secondo parametri confacenti alla
dignità umana (questa non è una facile “tirata” demagogica: il
dramma argentino, o quello più recente vissuto da milioni di
Statunitensi, o quello odierno dei nostri vicini Greci stanno lì a
dare la misura concreta e tangibile di cosa significhi precipitare
nel baratro aperto da soluzioni freddamente tecniche, volte
principalmente alla salvaguardia del potere finanziario).
Qualcuno
potrebbe obiettare che i suddetti attori non vogliono certo i
licenziamenti o l'evasione fiscale; non vogliono certo la sofferenza
sociale. Lo penso anch'io; è un fatto, però, che i “piani di
ristrutturazione industriale” poggiano sempre principalmente sulla
riduzione dei posti di lavoro (cioè delle buste paga), le banche
continuano a lucrare sui capitali esportati illegalmente e così via.
Questi attori, poi, sono gli stessi che lavorano con la finanza
“virtuale”, quella che produce ricchezza “finta”, aleatoria,
perché non è frutto del sistema produttivo, ma deriva direttamente
dalle operazioni di compravendita di titoli ed azioni e dalle
speculazioni di borsa. Da essa, tante volte, sono derivate le
tristemente famose “bolle” (valutarie, immobiliari eccetera), che
al loro inevitabile svanire hanno causato il fallimento di aziende e
istituti di credito, la perdita di posti di lavoro, la disperazione
di milioni di persone.
È
necessario cambiare. Le dichiarazioni di principio (e di convenienza)
da sole non bastano. Ci sono già alcuni segnali incoraggianti. Negli
Stati Uniti, ad esempio, molti cittadini sembrano avere preso
coscienza del fatto che le loro esigenze vitali non rientrano nella
considerazione dei signori di Wall Street. E lo stanno facendo
sentire con forza, da New York alla California. Spero che questa
consapevolezza cresca anche nel Vecchio Continente.
Se
davvero vogliamo l'Europa politica, allora essa non potrà continuare
ad essere l'Europa del potere monetario.
Francesco
Obinu
Parole sante.
RispondiEliminaQuanto alle misure "anti-crisi", l'esempio argentino mi sembra calzante, così come insegna già la prima tranche di criminale (s)vendita immobiliare di cui ha dato notizia "Ballarò" la settimana scorsa (nella sostanziale indifferenza di conduttore e onorevoli ospiti, a dire il vero), mentre per gli "indignati" di Wall Street Giorno e Notte suggerirei un intervento a cura della nuova coppia Scajola-Pisanu: tanta esperienza a servizio del cambiamento.
A.S.
nooooooooooooo hai perso troppo lungo questo post! mi ci vogliono 2 pc per leggerlo, nooo senza neanche una foto!neanche per idea! qualcuno di voi può riassumere? grazie!
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