D – Perché la protesta dei ricercatori universitari?
R – Innanzitutto è bene chiarire che non si tratta solo della protesta dei ricercatori, ma dell’intero corpo docente dell’Università contro una riforma – quella del ministro Gelmini – palesemente iniqua e destinata a portare al fallimento dell’istruzione e della ricerca pubblica. I ricercatori, che rappresentano il gradino più basso della gerarchia dei docenti universitari, hanno semplicemente dato il “la” alla protesta perché travolti in prima battuta dallo tsunami della riforma.
D – Quali sarebbero gli effetti negativi della riforma Gelmini?
R – La questione dei tagli è il problema centrale. Il Governo vorrebbe fare le nozze con i fichi secchi, promuovendo una riforma “a costo zero”, che andrebbe intesa meglio come “zero investimenti”. Per migliorare i risultati della ricerca e della didattica, che collocano l’Italia agli ultimi posti in Europa, si tagliano in un triennio 2,5 miliardi (proprio così, miliardi) di euro. In altre parole, si predica bene e si razzola male, mentre in altri paesi si investe proprio su ricerca e sviluppo per uscire dalla crisi... Non si capisce come l’Università italiana possa migliorare il proprio rendimento se non vengono potenziati gli organici con personale preparato e motivato, sostenendo la ricerca e la didattica con finanziamenti adeguati. Non ci vuole molta fantasia per capire che nel giro di poco tempo le piccole Università arriverebbero al collasso a tutto vantaggio degli atenei più potenti e soprattutto di quelli privati. Naturalmente solo per chi sarà in grado di permetterseli.
D – Viene il sospetto che Sassari non se la passerebbe bene...
R – Gli effetti per Sassari, intendendo città e territorio, sarebbero devastanti, dal momento che l’Università rappresenta una delle principali realtà economiche e un punto di riferimento culturale da oltre quattrocento anni. Quale futuro si vuole apparecchiare alle generazioni future, quando ci si dovrà accontentare di una Università di scarso livello senza alcuna prospettiva? Ma proviamo anche a immaginare cosa accadrebbe, con la moria di studenti o la loro fuga verso le Università della penisola, in termini di indotto (mercato immobiliare, ristorazione e piccolo commercio, ad esempio). Si capisce che non c’è in gioco il futuro dei professori o dei ricercatori, ma quello dei giovani delle aree più svantaggiate (e la Sardegna è fra queste) e di un equilibrio sociale ed economico messo già abbastanza a dura prova dalla crisi globale.
D – Ma davvero l’Università italiana è esente da colpe?
R – L’Università italiana è in parte vittima dei suoi stessi errori e dovrebbe per questo cercare in primis di autoriformarsi, contenendo i costi e riorganizzando l’offerta formativa nei diversi atenei in base alle proprie reali potenzialità e alle necessità del territorio. Sedi gemmate e moltiplicazione di corsi di ogni genere costituiscono la patologia di un sovradimensionamento che d’altra parte ha investito e investe numerosi settori dello Stato, dalla sanità alla pubblica amministrazione, e di cui ora si avvertono più che mai gli effetti deleteri per via della crisi economica. Detto questo, non si può certo pensare di “punire” l’Università chiudendo bottega. I correttivi non possono essere cioè peggiori del male.
D – Ma per quale motivo sono i ricercatori ad essere in prima linea nella protesta?
R – La filosofia di fondo della riforma Gelmini è quella di inserire nel corpo docente dell’Università un massiccio numero di precari, definiti “ricercatori a tempo determinato”, con anche compiti di docenza, dietro la chimera della loro futura integrazione nell’organico delle Facoltà come professori di seconda fascia (i cosiddetti “associati”), collocando di fatto in un binario morto gli attuali ricercatori. Gente, per intenderci, che ha dedicato una vita al proprio lavoro (la ricerca, appunto), accollandosi supplementari e gravosi compiti di docenza garantendo la sopravvivenza di interi corsi di laurea, e che con questa riforma vedrebbe vanificata ogni prospettiva di crescita professionale.
D – In parole povere: lavoro flessibile contro posto fisso?
R – Il punto non è garantire un posto fisso per tutti a prescindere da capacità e produttività, ma programmare in modo serio didattica e ricerca. Che senso ha investire sui giovani ricercatori (dottorandi di ricerca, assegnisti, contrattisti vari) se non vi è alla base un coerente percorso di formazione e soprattutto una reale prospettiva di occupazione? Istituire un’ennesima figura precaria, quella dei “ricercatori a tempo determinato”, è solo un modo per risparmiare un po’ di denaro pubblico sul breve periodo, allevando illusioni e impoverendo l’offerta formativa, visto che al pensionamento di professori e ricercatori non corrisponde automaticamente l’attivazione di altrettanti posti di lavoro (il cosiddetto turn over).
D – La gente pensa però che i docenti universitari siano dei privilegiati
R – Dati alla mano, i docenti delle Università italiane sono pagati peggio dei colleghi europei, mentre è vero che esiste una sproporzione tra gli stipendi dei professori di prima fascia (gli “ordinari”) e quelli di terza fascia (i ricercatori), che guadagnano quanto i docenti della scuola media. Certo, la retribuzione è commisurata al grado accademico e all’anzianità di servizio, ma se si guarda alla quantità e alla qualità del lavoro non sembrano esserci grandi differenze. Tanto è vero che ordinari, associati e ricercatori ricoprono in eguale modo le cattedre delle Facoltà. Ecco, una riforma coraggiosa potrebbe riguardare l’unificazione del corpo docente, con un livellamento della retribuzione che da una parte faccia giustizia della responsabilità e dignità del lavoro dei docenti e dall’altra tenga conto delle esigenze di bilancio.
D – In che modo intendete portare avanti la protesta?
R – Intanto una cosa deve essere chiara: almeno per quanto riguarda Sassari, è finito il tempo delle “occupazioni” e delle manifestazioni di piazza che urlano al vento, non avendo più senso esibire cartelli e manifesti in assenza di interlocutori. I docenti e ricercatori che aderiscono alla protesta contro la riforma Gelmini hanno piuttosto deciso di manifestare il proprio dissenso nella maniera più lineare: facendo il proprio dovere. Attenendosi cioè a quanto stabilito dal proprio contratto, al quale hanno finora derogato per puro spirito di servizio e per la passione nei confronti del proprio lavoro. Il risultato sarà il “congelamento” di diverse materie di insegnamento e in certi casi la contrazione o chiusura di alcuni corsi. Ma lo stesso Senato Accademico dell’Università di Sassari ha suggerito l’ipotesi di rinviare di due settimane l’avvio dei corsi, pur essendo assolutamente salvaguardate le sessioni di esame e di laurea. Gli studenti e le loro famiglie capiranno forse in questo modo come l’Università si sia retta finora su una forza-lavoro che negli ultimi anni ha attinto più spesso al volontariato che alla professionalità retribuita, grazie anche a un numero spropositato di contratti esterni a titolo gratuito. Si spera così di guadagnare il sostegno di tutte le parti interessate dalla cosiddetta riforma. L’auspicio è anche che gli amministratori e i parlamentari eletti dal territorio si facciano portatori di questa battaglia di civiltà.
D – Potrebbe prefigurarsi il quadro catastrofico disegnato dalla stessa riforma?
R – Così come nella Scuola il tocco della Gelmini è stato percepito immediatamente in tutta la sua gravità, tutti potranno prendere presto coscienza degli effetti dello “svuotamento” dell’Università pubblica. Una sorta di prova generale. Essendo tenuti ad attivare comunque i corsi e non avendo risorse a sufficienza i presidi delle diverse Facoltà saranno costretti ad operare dei tagli e a reclutare ancora più massicciamente professori esterni a contratto, naturalmente gratuito. Siamo convinti che gli studenti non resteranno insensibili alla privazione o al brutale ridimensionamento delle loro legittime aspettative.
Alessandro Soddu
Brutto quadro e ancor peggiore prospettiva, non c'è dubbio. Del resto la "riforma" Gelmini è, in realtà, la "non-riforma" Tremonti.
RispondiEliminaPer cui mi chiedevo: un governo di centrosinistra saprebbe trovare le risorse che servono per una vera e produttiva riforma dell'Università?
I soldi disponibili son pochini. Il plenipotenziario Tremonti li ha disposti sulla base delle priorità politico-ideologiche del centrodestra.
Un subentrante governo di centrosinistra dovrebbe tagliare certe spese per finanziare scuola, ricerca, università. Però, appunto, una coalizione bersaniana saprebbe sopprimere, ad esempio, le missioni militari all'estero?
Per quel che si è visto anche nel recente passato, temo di no.
Eppure ci vorrebbero scelte nette e coraggiose per un vero rilancio dell'Università, altrimenti avremo altre nozze a base di fichi secchi.
e gli studenti cosa possono fare per evitare tutto questo?
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