mercoledì 5 agosto 2009

Politica. Frittelle d'Italia



Come una colonna di fumo, appare all’orizzonte la ricorrenza dei 150 anni dell’unità d’Italia. C’è qualcosa da festeggiare? L’Italia e gli italiani non sono mai stati più disuniti, almeno programmaticamente, se si guarda alle posizioni sempre più estreme della Lega Nord e al costituendo Partito del Sud. In realtà quest’ultimo è qualcosa di più complesso e incerto, mentre è chiaro che ogni progetto autonomista o addirittura indipendentista per essere serio deve partire da un presupposto socio-economico e politico-culturale forte (tutto quello che non è il Sud né tanto meno la Sardegna, mentre il discorso funziona bene per l’Alto Adige e la Valle d’Aosta e in prospettiva per la “Padania”). Se penso all’unità d’Italia e degli italiani, al di là della lingua imparata a scuola e delle istituzioni comuni, penso o cerco di pensare ad elementi di cerniera capaci di cementare uomini e valori, tradizioni e futuro. Così, la prima cosa che mi viene in mente è ciò che ogni ragazzo fino a qualche anno fa odiava sopra ogni cosa: il servizio militare di leva. Se ne può dire e se ne è detto ciò che si vuole, ma era l’unica rete interregionale e in parte interclasse capace di fare dialogare a volte malamente e malvolentieri i ragazzi di tutto lo Stivale, isole comprese, a partire dalla fetida visita militare assegnata per armi in base al quadrimestre di nascita. Tutti gli altri movimenti di uomini e di idee hanno connotati diversi, filtrati dall’economia e dalla cultura, per dirla banalmente. Migrazione di manodopera poco qualificata da sud a nord versus turismo di massa e d’élite da nord a sud, che vuol dire anche sradicamento da una parte e godimento stagionale dall’altra. Non proprio un saldo in pareggio. In compenso la classe media meridionale copre tutta l’Italia attraverso le poltrone degli uffici e le cattedre di scuole e università, così come il Sud continua a incrementare gli organici di polizia e di tutti i corpi militari, d’aria, di terra e di mare. Se non fosse per la criminalità organizzata che controlla un terzo del Paese, ma è ben ramificata dappertutto, il ricco Nord potrebbe investire di più nel povero Sud, ma spesso l’alibi è servito e serve per applicare la strategia economica del “mordi e fuggi”, quella nota anche per privatizzare i profitti e socializzare le perdite, saccheggiando il territorio e lasciando a piedi i lavoratori. Cosa resta allora, se non il sogno? L’unità nazionale sembra poter passare periodicamente attraverso lo sport e il calcio in particolare. Ma, si sa, è questa la madre di tutte le contraddizioni, perché le squadre locali di calcio sono piuttosto motivo di violente contrapposizioni e campanilismi, mentre la “nazionale” funziona da estemporaneo ed estivo elemento aggregante, pronto ad essere rigettato un secondo dopo la prima brutta figura. Questo perché quel che manca a tutto lo sport italiano, calcio compreso, è una cultura e una struttura di base. Il cosiddetto movimento non esiste. Fenomeni episodici come Alberto Tomba ieri e Federica Pellegrini oggi lo dimostrano ampiamente. E allora mentre alle Camere si programmano le nuove prove di accesso alle frontiere padane e i dignitari del regno di Sicilia presentano i loro papelli all’imperatore, non ci si chieda di entusiasmarci per questa surreale Unità. Va a finire che l’Italia è già una sgangherata repubblica federale (una federazione di egoismi) e non ce ne eravamo accorti. L’Unione Europea prenda appunti.

Alessandro Soddu

3 commenti:

  1. Unità fasulla, sostieni. Sono d'accordo con te e del resto, cosa che non si sa dai più e non si ricorda da tanti, l'Unità d'Italia è finita subito dopo essere stata proclamata.
    C'era un Nord già in gran parte ricco e sviluppato allora, che aveva bisogno di un "mercato unico nazionale" per sbrigliare la sua crescita dai lacci delle tante barriere doganali.
    C'era un Sud di pochi potenti privilegiati e di moltitudini di contadini e braccianti affamati di terra e di pane: Garibaldi e il re piemontese rappresentavano coloro che li avrebbero sfamati.
    Poi l'Italia fu fatta. Gli imprenditori settentrionali ebbero il libero commercio e le commesse più lucrose del nuovo Regno. I contadini meridionali non ebbero praticamente nulla, visto che i grandi latifondi (chissà come mai) si conservarono in gran parte nelle mani della vecchia aristocrazia terriera e, in altra parte, finirono preda degli investimenti della rampante borghesia italica (che, statene certi, non comprava la terra per coltivarci i pomodori...).
    Così le cause profonde dei problemi drammatici di oggi furono servite, insieme all'Unità di carta e proclami.
    L'esercito? Quando i ragazzi meridionali capirono che l'unica cosa certa che gli portava mamma Italia era la coscrizione obbligatoria, si diedero in gran parte alla renitenza e al brigantaggio, finché furono costretti dalle retate e dagli arresti a smetterla (altro che motivo unificante...).
    Oggi siamo, o meglio, non siamo, quello che non seppero costruire allora.

    Aquarius

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  2. L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani. La nota frase di Massimo d’Azeglio. Quante volte la ripetiamo nella testa. La si impara da piccoli, quando si studiava le fasi dell’Unità d’Italia come una sorta di epopea contro il male austriaco, borbonico, granducale etc. E diventati un po’ più grandi la si ripete storcendo il naso e ridendo sotto i baffi di come sia rimasto un motto vuoto e privo di significato. Come il primo articolo della costituzione….
    Ora d’agosto, mentre i giornali si riempiono delle boutade della Lega, che fanno ridere, ma in realtà sono tutte rispondenti ad un'unica direzione: dividere, forse anche separare, ma soprattutto dividere. Ma fotografano la realtà di un paese diviso da sempre in zone che solo la geografia unisce. Non esiste più il concetto di integrazione, di inserimento e di pacifico movimento. L’Italia paese dei campanili, o alla sarda delle cento teste e delle cento opinioni. Anche gli altri paesi sono così. Un politico francese di cui non ricordo il nome diceva che governare la Francia è difficile e complesso dato che era un pese dove si producevano più di cento diversi tipi di formaggi. E la Spagna non è divisa al suo interno? Le il Regno Unito? E Gli stati Uniti?
    Certo le ragioni storiche dell’Italia sono note, come sono noti anche i quaranta anni di periodo post fascista quando, dopo il Ventennio, parlare di orgoglio nazionale, patria e “attaccamento alla bandiera” era sinonimo di destra nostalgica. E se amavi i Carabinieri eri un vero fascista! Un atteggiamento che una certa sinistra ha sempre caldeggiato, e da quel brodo di non cultura nazionale è nata anche la costola della Lega, secondo la solita interpretazione spocchiosa di Dalema che forse non ha una visione politica nemmeno per Gallipoli, anzi è il primo a suscitare il solitito “puddarzu” a sinistra.
    L’eterna ricerca dei valori condivisi. Ma da dove? Nelle fasi dell’Unità, nella spedizione di Garibaldi, nella prima guerra Mondiale, nella lotta partigiana? Ma torniamo più indietro, nella divisione che fece il Papato del regno delle due Sicilie alla fine del XIII secolo, con l’inghippo: “da a me Sicilia, che tengo Meridione d’Italia, butto fuori Aragonesi ma do te in scambio Sardegna”. O da ancora prima quando il Papato scelse i Carolingi e buttò nel cesso i Longobardi, che del resto erano in Italia da qualche secolo, in modo stanziale. Divide et impera: sempre divisi, sempre gli uni contro gli altri. Il sud che si fa saccheggiare, perché è meglio controllabile o forse perché il livello culturale è sempre troppo basso. Non ho soluzioni, ne di tipo politico, né di stampo economico, ma di certo credo sempre che l’integrazione è possibile sono dicendo la verità. Me ne viene in mente una. È uno schifo che l’attuale presidente del consiglio abbia festeggiato il 25 aprile solo quest’anno. E di questo passo ha solo ragione la Lega. La nazionale di calcio lasciamola a Lippi, che è anche pagato per quel lavoro.

    Franco G.R. Campus

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  3. E se invece scoprissimo che avera ragione Metternich (Italia espressione geografica)?
    Marco Rendeli

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