mercoledì 29 aprile 2009

Letture. O cortigiano, portami via...


Istruzioni per trionfare nel mestiere
Mille anni fa, disse il sultano di Persia: «Che bontà». Lui non aveva mai assaggiato la melanzana, e la stava mangiando a fettine condite con zenzero ed erbe del Nilo. Allora il poeta di corte esaltò la melanzana, che dà piacere al palato e a letto fa miracoli, perché per le prodezze dell'amore è più potente della polvere di dente di tigre o del corno grattugiato del rinoceronte. Un paio di bocconi dopo, il sultano disse: «Che schifezza». E allora il poeta di corte maledisse la melanzana fedifraga, che rallenta la digestione, riempie la testa di brutti pensieri e spinge gli uomini virtuosi verso l'abisso del delirio e della follia. «Hai appena innalzato la melanzana al Paradiso, e adesso la stai gettando agli inferi», commentò un malizioso. E il poeta, che era un profeta dei mezzi di comunicazione di massa, mise le cose al loro posto: «Io sono un cortigiano del sultano, non sono un cortigiano della melanzana».
(Eduardo Galeano, Le labbra del tempo, 2006)


consigliato da: Dies/Alessandro Soddu

Politica. Se alle europee trionfa la foca





Non ci sono abbastanza aggettivi per definire l’inutilità della riflessione sul degrado morale dell’attuale vita politica italiana. Segnalare, evidenziare le cose o denunciarle con forza non sembra comportare alcuna conseguenza, poiché lo scandalo (nero, grigio, rosa) è da tempo assurto a normalità, ingerito e digerito dall’opinione pubblica, confuso com’è tra realtà e reality. E purtroppo non può cambiare le cose neanche l’indignazione della consorte del presidente del Consiglio dei Ministri, intanto perché, a suo modo, tardiva, ma soprattutto per il fatto che, come la volta scorsa (do you remember “Letter to Silvio”?), non condurrà a un bel niente. Le belle donne piacciono agli uomini, belli e brutti, ricchi e poveri: neanche questa è una notizia. Piuttosto è interessante vedere fino a che punto la dirigenza e l’elettorato del Pdl saranno in grado di accettare e fare proprio questo orientamento culturale. Se sia cioè possibile passare dal reparto accessori all’arredamento integrale della casa delle libertà con deliziose esponenti dello star system smeraldino e/o televisivo. Nutro anche io una sincera ammirazione per il mondo femminile in tutte le sue espressioni, dalla luce del sole alle tenebre più fitte. Ma questo non ha, o non dovrebbe avere, niente a che fare con la selezione del personale destinato a governare la collettività, dalle vie di Rebeccu alle piazze di Sassari, dai palazzi di Roma a quelli di Bruxelles. L’auspicio generale è che i rappresentanti dei cittadini, espressi o meno dalla propria parte politica, siano in grado di districarsi tra Puc, Por, Tfr e Alta Velocità, piuttosto che primeggiare nell’abbinamento di reggiseno e perizoma. Ma tant’è. Se la maggioranza deciderà che i valori su cui puntare - come in una corsa ippica - sono questi, faremo bene ad adeguarci (ed anche in fretta) e sperare prima o poi di partecipare alla festa. A proposito di cavalli, il ricordo va fatalmente all’illustre (presunto) senatore di Caligola, il quale però, chissà perché, mi rimanda più che all’imperatore romano al gatto del fumetto “Geppo” (il diavolo buono): sempre pronto a combinare scherzetti e puntualmente inforcato da Satana. Ma che storia è questa?


Alessandro Soddu

martedì 28 aprile 2009

Libri. Questione sarda

Negli ultimi due secoli, uomini politici e studiosi si sono affaccendati intorno alla “questione sarda”, cioè l’insieme dei problemi economici e sociali legati al sottosviluppo della nostra regione.
Oltre agli articoli di Giovanni Battista Tuveri su “Movimento Sardo” (1876), sono da ricordare almeno il saggio di Giuseppe Todde La Sardegna, uscito su “L’Economista” nel 1895, la Relazione dell’inchiesta sulle condizioni economiche e della sicurezza pubblica in Sardegna (1896), di Francesco Pais Serra e la riflessione autonomistica svolta dai sardisti su “Il Solco” e in Parlamento nel primo dopoguerra e proseguita da Emilio Lussu, dopo l’avvento del fascismo, sui “Quaderni di Giustizia e Libertà”.
Un libro del tutto particolare, in questo panorama, è La questione sarda, di Giovanni Maria Lei Spano, edito dai Fratelli Bocca a Torino nel 1922 (riedizione a cura di M. Brigaglia: G. M. Lei Spano, La questione sarda, Ilisso, Nuoro 2000).
Lei Spano era esponente di una famiglia di proprietari terrieri di Ploaghe e lui stesso, seppure impegnato nella professione di magistrato, onorò il suo “dovere” di imprenditore agricolo, sperimentando nella sua tenuta tecniche di coltivazione e di allevamento innovative.
Nel 1916 maturò l’idea di scrivere il libro, con l’intento dichiarato di dimostrare in modo inoppugnabile le esigenze della regione, affinché lo Stato, avendo una conoscenza precisa di esse, si persuadesse ad intervenire anche nel suo stesso interesse, perché una regione tanto arretrata rappresentava una “vergogna” e un danno per l’intera nazione.
L’autore sosteneva anche che i Sardi avevano pensato più a lamentarsi della “ingratitudine” della patria verso il loro sacrificio nelle guerre nazionali, che a lavorare per il loro “miglioramento economico e morale”. Il malcontento era comprensibile, ma i Sardi dovevano deporre il rancore e il fatalismo e farsi artefici della loro “rinascita”.
Queste considerazioni proemiali sembrano pensate per dare sfogo all’ostilità di Lei Spano per il combattentismo e il sardismo, anche perché i problemi della Sardegna erano ben noti a Roma, soprattutto per le inchieste promosse dal Parlamento: chi leggesse la Relazione di Pais Serra, si troverebbe di fronte ad un lavoro scrupoloso e corredato con dati e documenti ufficiali, a cui non a caso erano seguiti i primi “provvedimenti speciali” in favore dell’isola (1897).
I sei capitoli del libro di Lei Spano descrivono soprattutto le condizioni dell’agricoltura e, in modo meno approfondito, dell’industria estrattiva. È vero che a quei tempi terra e miniere erano le sole voci macroeconomiche dell’isola, ma colpisce che l’autore non pensasse anche ad interventi per l’incremento di altre attività produttive (Pais Serra lo aveva fatto), per sollevarle dalla dimensione famigliare e artigianale e farne forze trainanti dell’economia sarda. Ad esempio, sulla pesca non si fa nemmeno un cenno e l’industria casearia è vista come una concausa della crisi dell’agricoltura, piuttosto che come un’opportunità di sviluppo.
Lei Spano voleva identificare, in buona sostanza, il sottosviluppo sardo e dunque la stessa “questione sarda”, con la crisi dell’agricoltura isolana.
Il giudice-agricoltore indicava la causa della crisi dell’agricoltura nella sua arretratezza: per superarla si doveva ricorrere alla “azienda agricola integrale”, con campi a coltura varia e prati artificiali per il pascolo del bestiame, abitata stabilmente dalla famiglia possidente e da quella del mezzadro.
Lo Stato doveva promuovere l’azienda agricola, invece di attuare la “vana e inconcludente divisione del latifondo”: ancora un attacco ai sardisti (e ai socialisti), che predicavano la distribuzione della terra alla massa dei piccoli contadini e braccianti.
Alla “buona borghesia” della terra si doveva dare più forza-lavoro, frenando l’emigrazione (nel primo capitolo si può leggere una puntigliosa polemica contro la tesi “migrazionista” della scuola economica che faceva capo a Francesco Saverio Nitti); più sicurezza, combattendo specialmente l’abigeato; strade moderne per il veloce ed economico trasporto delle merci; opere idrauliche per scongiurare le magre da siccità; opere di rimboschimento per l’umidificazione del clima e l’assetto idrogeologico; opere di bonifica per accrescere gli ettari coltivabili e debellare la malaria.
Per Lei Spano la libera capacità imprenditoriale della borghesia era la base del progresso. Per questo considerava il “comunismo della terra”, praticato in Russia dopo la Rivoluzione, come un “arretramento” verso i pessimi risultati economici e sociali dell’agricoltura dei popoli barbarici e del sistema feudale (l’argomentazione è scientificamente inconsistente, perché pretende di paragonare il sistema agrario delle tribù barbariche e del feudo - caratterizzato vuoi dallo sfruttamento irrazionale della terra, vuoi dalla vessazione tributaria e dal servaggio extra-agricolo a favore del feudatario - con l’organizzazione lavorativa e produttiva del sovchoz e del kolchoz).
Lei Spano si mostra ostile anche alla cultura e all’istruzione, tranne quella tecnica delle “scuole di arti e mestieri”. Auspicava senza mezzi termini che il mondo avesse “meno avvocati e meno professori” e “più agricoltori, più industriali, più commercianti” e che in Italia vi fosse “meno grammatica latina e più conoscenza della vita e delle pratiche del lavoro”. Considerava la scuola elementare la “fabbrica del passaporto” per gli emigranti (alcuni Stati non consentivano l’accesso agli analfabeti) e la “fabbrica del lieve titolo di studio” richiesto per l’arruolamento militare. L’istruzione allontanava i lavoratori dalle campagne.
Lei Spano, in sostanza, parlava di progresso “economico e morale” senza riconoscere che se il benessere economico può dipendere principalmente dallo sviluppo delle attività produttive, quello morale ha necessariamente bisogno di una società istruita e dunque consapevole, non lasciata nell’ignoranza, facile preda della prevaricazione e dello sfruttamento.
L’impressione che si ha, al termine della lettura del libro, è che l’autore non avesse realmente l’intenzione di proporre soluzioni per la “questione sarda”, ma che la agitasse strumentalmente per perorare davanti allo Stato la causa della borghesia terriera, timorosa di essere ridimensionata in termini di influenza economica e politica in conseguenza della crisi agricola e spaventata dall’avanzata del socialismo e del sardismo.
Spaventata, in sostanza, da un mondo in veloce ed irreversibile cambiamento democratico.

Francesco Obinu

mercoledì 8 aprile 2009

Politica. Aeternum

Non può non saltare agli occhi: il presidente del Consiglio dei ministri "punta all'eternità".
Un tempo paragonava se stesso a Napoleone Bonaparte (ricordate, quando indossava il mantello?) e già questo era un fatto sintomatico di come egli intenda l'opera dell'uomo di governo.
Può un "grande statista" sprecare il suo prezioso tempo per occuparsi di faccende spicciole, come ad esempio garantire l'immediata spendibilità dei fondi necessari per la realizzazione di una strada moderna e sicura, che "avvicini" i centri abitati di un vasto territorio, aumenti la "velocità commerciale" a vantaggio dello sviluppo economico e, innanzitutto, ponga fine allo stillicidio delle vite spezzate da incidenti automobilistici che, in larga misura, derivano dall'inadeguatezza strutturale della strada esistente rispetto al volume del traffico? (ogni riferimento alla Sassari-Olbia, una delle strade più pericolose d'Italia secondo l'ANAS, è assolutamente voluto).
No, non può. Il "grande statista" deve dedicarsi a opere altrettanto grandi, che restino nella storia dell'Umanità e insieme consacrino il loro Artefice.
Ecco allora la sua caparbia insistenza, costi quel che costi, per la realizzazione del ciclopico ponte sullo Stretto di Messina: non importa se prima di Scilla e Cariddi ci sia tutta una Salerno-Reggio Calabria che aspetta di essere finita da decenni. Robetta, ci penserà il suo piccolo successore!
Ecco il suo frequente richiamo, ogniqualvolta si delinei un percorso di ricostruzione e rilancio economico su vasta scala, all'americano Piano Marshall del secondo dopoguerra: eppure dovrebbe saperlo che l'economia mondiale ha ormai da tempo le pezze al culo...
Ecco certe sue stravaganti proposte, tipo "realizzare un collegamento tra il Mar Rosso e il Mar Morto", prima che il secondo... muoia! O i suoi vagheggiamenti intorno alla prospettiva di una vita media (!!!) di 120 anni, o quelli recentissimi intorno alle "new towns"...
Soltanto che il titanismo non è una caratteristica del grande statista, ma del megalomane. Il presidente del Consiglio dei ministri è stato accostato a diverse figure autoritarie e tiranniche, come Mussolini, come addirittura Hitler e Saddam Hussein. Non credo che questi paragoni siano appropriati.
Egli non ha la stessa grandezza, sebbene terribile, criminale grandezza. Egli è l'omino che fa le "corna" sulla testa di qualcuno nelle foto di gruppo; che sbuca da dietro l'angolo con un sonoro "cu-cuuu!"; che passa sull'etichetta della Casa reale inglese con la disarmante noncuranza di un somaro...
Egli è paragonabile piuttosto al buffo Bokassa, è uno statista da Terzo mondo, presuntuoso e spaccone nella sua patetica acculturazione posticcia, fatta di massiccie somministrazioni di nozionismo via cuffia (...and "nosonly").
Il capo del governo che opera in funzione della sua immortalità storica non può essere la guida di un paese civile e avanzato. Il governante vero è colui che serve il suo paese, non la sua vanagloria.
Ecco perché l'attuale presidente del Consiglio non è uno statista: non ne ha la tempra e la tensione morale. Per questo la sua azione di governo finisce inevitabilmente per danneggiare gli interessi della collettività o, nella migliore delle ipotesi, non li coltiva.
Ricordiamocene nel 2013.
Francesco Obinu

sabato 4 aprile 2009

Controcalcio. Ho visto Maradona

Ho visto Maradona, il film di Kusturica. La vita e le opere del genio del calcio con gli occhi di Maradona, e con quelli di Kusturica. Bello e soprattutto non stucchevole. Per chi ama il calcio in modo viscerale è sempre difficile approcciarsi a una riduzione letteraria, cinematografica o artistica. C’è sempre il rischio che venga omesso qualcosa o, al contrario, esagerati i toni, che il narratore prevalga sull’attore, come il critico d’arte sull’opera d’arte. La rabbia che assale il telespettatore quando il regista anziché seguire l’autore del gol in tutta la liturgia del festeggiamento ripropone ossessivamente inutili replay. Il tempo non ammette moviole e tutto il baraccone mediatico che ruota intorno al calcio serve solo ad avvelenare gli animi e non a raccontare qualcosa che è già racconto pulsante. Il business impone contratti, ritmi, calendari, ma pretende anche di celebrare valori e di promuovere una società migliore. È evidentemente tutto inutile, oltre che ipocrita: sarebbe come vedere le prostitute incoraggiare l’astinenza sessuale. La favoletta dei “valori dello sport” avrà (o tornerà ad avere) un senso quando a raccontarla non sarà lo stesso orco cattivo. Dai campioni del calcio (o di altri sport) non ho mai preteso che insegnassero un accidente, se non ciò che facevano in campo. L’inarrivabile bravura e presunzione di Maradona l’ha reso inviso a milioni di tifosi avversari, ed è giusto che nella storia sia stato così. Ma il suo progressivo e inarrestabile declino ha fatto capire che abbiamo avuto la fortuna di assistere a qualcosa di straordinario e, soprattutto, tangibile. Altri miti, Pelè su tutti, appartengono a un’era sostanzialmente pre-televisiva e perciò galleggiano in una memoria omerica. Maradona no. Autore del suo destino nel bene e nel male, è stato fra noi, mostrando tutta la sua natura divina e una devastante umanità. Ci vuole un’età giusta per capire Maradona. La sua consuetudine con la droga non era diversa da quella di tanti importanti uomini politici che ne giustificano l’uso per scopi terapeutici. Ho capito di amare Maradona nel 1994, guardando da un megaschermo a Genova la partita Argentina-Grecia, in un bar, tra immigrati e persone qualunque di ogni nazionalità. Il suo gol, il suo urlo mi hanno reso felice. La congiura yankee e tutto il resto mi interessano quanto i baffi di Gianni Minà. Ho visto Maradona.
Alessandro Soddu