giovedì 5 febbraio 2009

Politica. La maschera e la lagrima



L’assioma pirandelliano della maschera che ognuno di noi porta costituisce una delle banalità più ricorrenti nei discorsi dei talk show pomeridiani. Il che è surreale vista la parata di lascive colombine, degne della sala da ballo di Eyes Wide Shut. Se però l’imperativo è quello di fare buon viso a cattivo gioco, anche di fronte alla crisi più nera, e di sorridere sempre, come all’ultimo drink sul Titanic, si capisce che la tensione dei muscoli facciali fino alla paresi è molto più di un semplice invito. Può infatti diventare uno slogan e un programma politico, ancora più efficace se ad architettarlo è un mago della comunicazione come Gavino Sanna, un tempo guru di Soru, ora gran ciambellano di Cappellacci. C’è però un piccolo problema filologico. Per «tornare a sorridere» occorre averlo fatto prima o essere comunque abituati a farlo. Cosa che non sembra esattamente nelle corde della maggioranza dei Sardi, sia per una condizione generale non proprio rosea, sia per un fatto per così dire costituzionale, che dalla faccenda dell’erba sardonica in poi ha disegnato sulla nostra bocca un ghigno scettico piuttosto che il sorriso beffardo e un po’ ebete del joker. Senza arrivare alla simpatia irresistibile di Pierrot, anche le maschere carnevalesche sarde non comunicano esattamente allegria e spensieratezza. In un breve trafiletto apparso su “Il Sardegna” di qualche giorno fa, il fotografo Pablo Volta ha descritto perfettamente lo spirito del carnevale sardo tradizionale (quello barbaricino per intenderci), colto in un servizio realizzato nel 1957: «serio, severo, direi triste. A differenza di qualsiasi carnevale, nessuno dei partecipanti rideva». Pablo Volta aveva capito tutto. La fondamentale serietà e tristezza dei Sardi, scolpita nella sua solenne tragicità nella faccia della Madre dell’ucciso di Ciusa [vedi foto], ha poco a che vedere con le mascherine da sfilata ridanciana. Ecco perché il triste Renato, oltre che per la fama di imprenditore vincente, si è rivelato la maschera nella quale potersi facilmente riconoscere. Il mamuthone d’oro può forse servire come volano turistico o per soddisfare accessi di sardismo senile, ma la purezza e la dignità di certi riti ancestrali non è roba per istranzos e faremo bene a ricordarcene.

Alessandro Soddu

2 commenti:

  1. Ebbene sì. Il triste Renato è il triste sardo.
    Non ci piace molto ridere, ma soprattutto non ci piacciono quelli che ridono anche per dirci che le cose non vanno poi tanto bene.
    Il candidato-governatore del PDL dichiara di essere un "inguaribile ottimista": pure lui, come l'eterna e onnipotente Maschera carnascialesca che lo ha creato. Cosa abbiamo fatto di male per meritarci un altro così...?
    Aquarius

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  2. Appare certamente interessante questa discussione sulla tristezza vera e presunta dell’Uomo Sardo. Certamente i Sardi sono attaccati alla loro storia storiograficamente scritta sui dati certi, ma a volte piegando le fonti a fini politici ed interpretativi.

    I sardi sono permalosi e poco abituati a ridere di se stessi. Certo questo è un difetto e un limite, almeno credo. Questo impedisce a loro stessi di vedere i propri difetti, e quindi di correggerli, e a volte a sopravalutare i propri pregi.
    Il problema, quasi a livello dell’enigma centrale del Nome della Rosa, i Sardi hanno mai riso nella loro storia?
    Non mi occupo direttamente del tema, ma lancio una piccola modesta considerazione. Le prime sintesi sul periodo medievale, scritte dopo l'unità d'Italia, ma sopratutto dopo il passaggio/annessione dell'unità geografica della Sardegna al Piemonte, con la cessione del titolo regio Sardo alla casa Savoia, miravano descrivere i fatti del medioevo con l’obbiettivo di dimostrare come il lungo periodo Aragonese e Spagnolo fosse il vero responsabile della cronica povertà dell'Isola. La povertà era evidente se paragonata al ricco Piemonte, o alla nobile Lombardia, o alla ancor più ricca e nobile Toscana. Era necessario trovare un colpevole in modo da attirare la benevolenza e il consenso sul nuovo stato, e sui diversi funzionari mandati dai Savoia.
    Eppure, oggi, chi direbbe che la Spagna sia, o sia stata un paese triste. E chi si sognerebbe di definire Barcellona una città triste e depressa.
    Ma allora da chi abbiamo preso questo carattere? Dai Bizantini, dai Romani, dai Pisani, dai Genovesi.
    Sulla Nuova di oggi (domenica 8 febbraio), se vi è capitato, leggete l’articolo che celebra la raccolta di articoli di Giovanni Lilliu. Una vita di lavoro per l’archeologo sardo, una persona certamente non triste, dotata di una spiccata curiosità e Amore per il suo lavoro. Alla presentazione alcuni studiosi commentano e celebrano così «l’archeologia come tema, capace di appassionare studenti e studiosi (…) Lilliu studia l’età dell’oro (???) ma anche quando le armi si usavano per difendere l’indipendenza della propria terra prima che i colonizzatori imponessero le loro leggi».
    Allora erano tristi i Punici?
    Maliziosamente penso: ecco perché il Sardo è triste. La sua storia ridotta ad una età dell’oro, muta e prima di scritti, e poi Tremila anni di guerre e soprusi. Non c’è più nulla da ridere… nemmeno oggi.

    La felicità è godere di quello che si ha nel presente, non nell’ansia del futuro, e ancora meno nel rimpianto del passato (e quanto è passato…).
    Passano gli anni, ma la ricerca del colpevole è ancora una strada di ricerca con numerosi estimatori. Uffa che amarezza, e che tristezza!

    PS. Le maschere del carnevale sardo sono tristi? Magari non tutte, ma certamente chi fa il carnevale si diverte un sacco.

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